1. le città espropriate della mappa del proprio futuro

Ne "Le Città Invisibili", di Italo Calvino, la città di Marozia è quella degli attori illusi che diventano spettatori distratti, magari in attesa di trasformarsi in passanti delusi. Si racconta di una città che contiene due città, “una del topo, una della rondine. La prima dominata dal gretto dominio topesco, è la città di ieri e di oggi, del passato presente che continuamente viviamo, “è una città dove tutti corrono in cunicoli di piombo come branchi di topi che si strappano di sotto i denti gli avanzi caduti dai denti dei topi più minacciosi”. Una città che depaupera e si degrada con i topi più piccoli si disputano gli avanzi ai topi più grandi. L’altra città, quella del futuro, quella che sarà, su cui depositiamo le nostre speranze, quella che “sta per cominciare”, in “un nuovo secolo”, oltre l’orizzonte, quando tutti i cittadini “voleranno come le rondini nel cielo d'estate, chiamandosi come in un gioco, esibendosi in volteggi ad ali ferme, sgombrando l'aria da zanzare e moscerini”,  dovrà passare da essere uno spazio organizzato in un luogo identificato, pieno di natura, azzurra come il cielo dell’orizzonte, dentro la narrazione della propria storia che accarezza la quotidianità di ciascuno, circoscritta entro un orizzonte oltre il quale non si è più fino in fondo davvero se stessi.

Tutte le città sono proprio così, per ciascuno di noi, anche se la nostra ci sembra un po’ sempre diversa, unica, esclusiva ed in qualche modo comunque escludente.

Che altro potremmo mai essere noi, viceversa?

Cittadini che passano in una città senza accorgersi spesso della vita che si svolge in quei luoghi, in quegli spazi, dentro i tempi del reciproco riconoscimento. Allora le due città non sono identificabili con le nostra, non ci sembrano la nostra situazione. Forse nemmeno lo è. Forse è soltanto una sensazione. Ogni nostro presente è progressivo, mai totalmente risolutivo, mai risolto, mai risolvibile fino in fondo, come si diceva una uno statu nascendi perpetuo, cose che sono sempre sul punto di avvenire, cambiamenti sempre probabili, miglioramenti sempre possibili.

In tanti anni abbiamo più volte sentito le descrizioni, entrambe eccessivamente enfatiche: il grido elettorale fatto di aspettative ingannevoli, “è tempo che il secolo del topo abbia termine e cominci quello della rondine; l’accusa autogiustificativa del “torvo e gretto” passato caratterizzato dal “predominio topesco”; la certezza illusa e illusoria dei vincitori di “covare uno slancio da rondini, che puntano verso l'aria trasparente con un agile colpo di coda e disegnano con la lama delle ali la curva d’un orizzonte che s’allarga”.

Forse si tratta soltanto di uno stato percettivo e forse la vera illusione è nella esigenza infantile di sentirsi illusi per ricevere la delusione come una giustificazione; mentre l’energia che ci serve è nella quotidiana concreta utopia di essere, non attori, né spettatori e tantomeno passanti, ma soltanto semplicemente protagonisti di noi stessi.

Forse le eccessive aspettative non permettono alla città di costruire la sua mappa per il futuro. In tanti parlano. Quasi tutti vedono gli alberi. Pochi vedono la foresta. In molti ci rappresentano un almanacco di dolori, il lungo elenco dei problemi non risolti senza sapere da dove cominciare e perché. Alberi in fila uno dopo l’altro e non sai se stai andando a Nord o a Sud, a Est o a Ovest. Non sai se stai girando attorno sempre allo stesso tiglio o alla stessa quercia.

Una visione d’insieme non c’è.

Una mappa per il futuro non c’è.

Dunque non c’è nemmeno una motivazione vera.

I problemi della sembrano slegati, i settori non connessi, i fattori non considerati. La politica è diventata concettualmente dislessica. Ognuno dice la cosa che il suo interlocutore, cittadino o elettore, vuole sentire; non rispetto allo sviluppo complesso e complessivo della città in cui vive, ma rispetto all’interesse immediato che crede di avere al momento della parola o, peggio ancora, in quello del voto. Insomma, non essendoci stato un confronto critico approfondito nel corso degli anni, alla fine resta soltanto un’azione interessata di blanda commiserazione della ossessioni, delle lamentazioni autogiustificatorie degli elettori. E allora, le ali che si vedono in giro “sono quelle di ombrelli diffidenti sotto i quali palpebre pesanti s'abbassano sugli sguardi; gente che crede di volare ce n'è, ma è tanto se si sollevano dal suolo sventolando palandrane da pipistrello”.

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