4. le città dei tempi presenti

In una bellissima vignetta di qualche anno fa, la titubante e riflessiva Mafalda si rivolge al padre interrogandolo sui suoi tempi. Il genitore ansioso, si dilunga in esaltanti descrizioni dei suoi tempi, in cui succedeva questo e quello, allorché la gioventù era una esaltazione di vita, quando si facevano imprese spericolate e avventure perigliose. Quei tempi della forza e della baldanza, quei tempi mitizzati dalla memoria e dall’assenza, erano i suoi tempi. Triste Mafalda si allontana, curva sulla sua delusione e piegata dalle aspettative tradite, pensa: “Avrei tanto desiderato che mi avesse detto: «questi sono i miei tempi»”.

Nessuno deve trasferire ad un altro il proprio desiderio, presente, passato o futuro. Insieme possiamo condividere, sempre, il godimento della vita vissuta. I nostri tempi sono adesso. Questi sono sempre i nostri tempi e noi possiamo frequentarne le altezze. Conosciamo l’odore delle nostre strade, la salsedine che sale e i tramonti di fuoco e passione. Siamo noi nel tempo che viviamo in un eterno presente che ci permette, se vogliamo, di costruire un altro presente e, in un tempo alla nostra portare, costruire la convivialità necessaria al godimento della città.

 Questi sono i nostri tempi, che ci permettono di vedere i deficit e le possibilità, senza infingimenti e senza depressioni, privi di ogni ineluttabile e consci che ogni particolare può rappresentare un universale, fermi e freddi, come diceva Quasimodo, in “una dichiarazione d’amore senza amore”.  

 

Ogni nostra epoca, - diceva Ortega y Gasset – porta con sé la sua norma e la sua enormità, il suo decalogo e la sua falsificazione[1].

Molte volte mi sono chiesto, preso da professionale girovagare, se questa città fosse anche un po’ mia. Mi sono chiesto se c’è ancora una città che sia davvero mia; se ci sono ancora in qualsiasi parte e in un qualsivoglia partito. E infine, se ci fosse, oltre me, questa città nel mio futuro prossimo venturo. Le città stesse avranno un futuro affidabile, o i social network le hanno già trasformate in residui di un passato che non riesce a passare? Ci sono ancora luoghi in città, ambiti di crescita professionale e situazioni di confronto culturale? C’è sempre una identità? Ci sono dei vincolo, certo, ma ci sono sempre delle possibilità?

La mia dichiarazione d’amore, il mio decalogo è questo.

Ho diviso la città in 6 parti:

  1. l’area dell’accoglienza, cioè la zona portuale, dove l’unica possibilità che abbiamo è quella  di realizzare un porto terminal per il trasporto marittimo in modo che sia possibile una offerta turistica integrata che abbia la nostra città come base di riferimento;
  2. l’area della fruizione, comprensiva del Centro Storico alto e basso, fino al Borgo Pio, comprensivo del Monte Sant’Angelo, dove sono ritracciabili e rivitalizzabili le enormi ricchezze storico archeologiche della nostra presenza in questi luoghi;
  3. l’area ecologica interna che circonda la città, da una parte con Monte Leano, dall’altra Campo Soriano, Santo Stefano fino al lago, colma di un altissimo patrimonio naturalistico;
  4. l’area dei servizi, praticamente quella compresa attorno alle parallele di via Arene e via Badino, dove possono essere posizionati tutti i servizi logici e tenologici necessari alla città e al suo hinterland;
  5. l’area ricreativa, che ruota attorno alla spiaggia e al lungomare, dove la fruizione si trasforma in consumo, dedicata ad un divertimento controllato e controllabile, nelle modalità e nella temporizzazione, che ci permetta di realizzare un Piano Spiaggia e una ristrutturazione generale dell’intero comparto ormai obsoleto per le nostre esigenze di sviluppo turistico;
la zona agricola, di enorme rilevanza per la nostra economia che ha indispensabile bisogno della costruzione di piattaforme tecnologiche e di assistenza alla coltivazione e alla commercializzazione dei prodotti agricoli tipici del nostro territorio.

No, non è il caso di entrare più approfonditamente nel dettaglio in questo spazio letterario limitato. Possiamo soltanto dire ora che, per migliorare la nostra città è indispensabile investire su 3 fatti sociali totali.

La sociologia moderna ci ha insegnato che esistono fatti sociali normali e fatti sociali totali: quelli che gli americani chiamano minor e/o major events. Ci sono cioè delle innovazioni, delle mutazioni, che travolgono tutti i settori del vivere sociale e cambiano la vita delle persone e in modo definitivo e irreversibile.

Il turismo è un major event, un fatto sociale totale che cambia interamente il vivere sociale e propone inevitabilmente un nuovo modello di sviluppo. Non servono investimenti infrastrutturali soltanto, serve una cultura dell’accoglienza. Non bastano spazi organizzati, servono luoghi identificati. Un centro commerciale è uno spazio organizzato, sempre uguale per essere ovunque riconosciuto da una sola pubblicità, sempre riconoscibile per ogni utenza. Piazza del Municipio, come il Colosseo, è un luogo identificato, esiste solo qua, solo da noi,  che segna e segnala la nostra presenza nella storia. Occorre una attenzione, una volontà, una cura dei luoghi che in questa città espropriata non c’è più.

Un secondo fatto sociale totale per noi è l’agricoltura, che necessita di un sostegno infrastrutturale sia per la produzione che per il marketing. la coltivazione, la produzione e la trasformazione di alcuni prodotti agricoli tipici necessita di un sostegno in termini di strumenti finanziari, laboratori e la possibilità di aggredire nuovi mercati. Per questo si ipotizzava la realizzazione di una Agrotech Valley che da Terracina verso Mazzocchio si costituisse come area di innovazione, ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura.

Un terzo, ma non ultimo, fatto sociale è la cultura, che come la democrazia, per essere esercitata ha bisogno di spazi, di strutture, di infrastrutture e di relazioni con l’immenso mondo della comunicazione. Di luoghi culturali ce ne sono molti e tanti ne abbiamo individuati in questi anni; sia per la fruizione di attività culturali, sia per la produzione di attività culturali autoctone, sia per la sperimentazione. Una offerta e un sostegno alla ampia fioritura che in questi anni, a partire dalla importante mobilitazione di una casa per la cultura della città, si è spontaneamente prodotta.


Nel mio linguaggio scientifico ho chiamato questi fatti sociali “fattori morfologici”. I fattori morfologici della nostra città, i fattori cioè intorno ai quali la nostra città assume una forma, sono 3: il turismo, l’agricoltura, la cultura.

Abbiamo dunque una mappa:

asset

aree

Agricoltura

Cultura

Turismo

asset

innovazioni

Accoglienza

Agriturismo

manifestazioni

stanzialità

progetti

Fruizione

mostre e rassegne

eventi

offerta

Progetti

Ecologica

Bioproduzioni

ambiente

habitat

progetti

Servizi

Piattaforme

infrastrutture

alberghi e case

progetti

Ricreativa

Fiere e feste

convivialità

attrazioni

progetti

Agricola

Produzioni

dimostrazioni

circuiti

progetti

Se fossi un dirigente locale, ancora un politico terracinese, partirei da qua, cercherei di disegnare, con i cittadini disponibili, i contenuti pratici e realizzabili della mappa per il nostro futuro. Ma non sono né l’uno e né l’altro, e vedo alberi divelti, spezzati, una foresta senza forma, una urbanizzazione priva e privata di ogni morfologia, la tristezza indifferente di proposte inutili, che vagano perdute nella propria insignificanza lungo le strade confuse di una città espropriata.



[1] Ortega y Gassett, LA RIBELLIONE DELLE MASSE, Il Mulino, Bologna 1982

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