Questo pensavo in fondo, nemmeno molto in fondo, mentre, più per puntiglio che per passione, marcavo la presenza, la sporadica presenza, nella mia città che non era più propriamente una città, sola, senza hinterland, con eventi disperati e dispersi che somigliano molto di più ai mesti e sparsi capelli su una vecchia testa canuta. Uno di qua, uno di là e tanto, tantissimo vuoto in mezzo. Tuttavia, questa situazione, di una urbanità che ancora, di nuovo, tenta di essere anche una città, non mi spaventa, non mi deprime. Possiamo ancora parlare e, parlando, riattivare le connessioni della convivialità tipiche della società della comunicazione. Lo so che, preda di una tecnologia assorbente e depotenziante ci sembra uno sforzo incommensurabile. Ma non lo è. Il pubblico assente, la platea distante e istintivamente dissenziente siamo noi, ciascuno di noi. Questo sforzo va fatto, perciò, sfidando la nostra afasia, anche con la gola ruvida e una voce grigia. Noi siamo abituati a parlare da soli o tra pochi amici, nonostante tutto, chiusi nelle stanze silenti e solitarie del pensiero, a scrivere testi che forse nessuno legge, che nessuno legge con una certa probabilità, che certamente nessuno legge. Tutti i giorni, con regolarità ossessiva dei maniaci, siamo lì, a scrivere testi come questo, che compongono libri, che nessuno apre, che neppure noi, dopo averli pubblicati, frequentiamo, come se quei libri fossero, in realtà, un deposito, una cantina dove relegare idee-oggetto da utilizzare all’occasione, un luogo in cui archiviare ipotesi costruite sulla scorta di una faticosa esperienza intellettuale. Siamo sempre lì, ossessionati, come puntigliosi collezionisti di parole e concetti, da qualche emozione riservata al ricordo. Noi, cultori della perifrasi, della arguta argomentazione o della battuta sferzante che proclamiamo a noi stessi per il tramite occasionale di un interlocutore distratto, non temiamo di parlare ad aule vuote, che siano universitarie o seminariali, in un convegno o in un congresso, in una associazione o anche pure in un partito, che pretende alla fine di essere ancora nostro, fatto da noi, in una identità che si definisce collettiva quando invece è soltanto il posto in cui concorrono le solitarie e ambiziose speranze di ciascuno. La grande possibilità che abbiamo, invece, nella società della comunicazione è la gramsciana[1] distinzione tra locale e globale. I vincoli li conosciamo abbondantemente, anche come noiosa litania di un populismo alla moda. Le possibilità, le enormi ed inusitate possibilità, sono quelle di essere glocali, di vivere in una città connessa con il mondo senza perdere la propria connotazione in una traduzione politica del messaggio sociale.
I Quaderni dal Carcere non sono scritti bene. Sono colmi di concetti, però. Succede sempre così: quando uno è soffocato dal disagio della vita quotidiana, per non sentire il dominio e la propria indigenza, lascia il mondo e insegue il pensiero. Si rifugia laddove è impossibile che venga scoperto. L’ora del carcerato è deflorata da ogni invadenza, senza riservatezza, appartiene a tutti, inopportunamente condivisa nei rumori e negli odori, in ogni altra fisiologia riservata. E allora uno non può far altro che recuperare l’indispensabile intimità negli angoli immateriali della mente, dove nessuno può scoprirci, dove non è possibile importunarci, dove non ci possono raggiungere, quando vogliamo allontanarci. Ma, a differenza del corpo lento, sottoposto ad una condanna che non ha scampo, il pensiero ha, chissà perché, forse come forma reattiva, una certa inspiegabile fretta. L’urgenza delle idee non può cedere alla pazienza dello stile. Forse è un modo per superare la propria liminalità costrittiva. Non hai altra scelta: o cedere alla debolezza autodistruttiva del nichilismo o l’iperattività cerebrale dell’esistenzialismo, depressione o impressione, implosione o esplosione. È la stessa condizione delle nostre città, costrette alla prigionia del provincialismo che le esautora, per sua stessa dichiarazione, da ogni funzionalità e l’unica prestazione che riserva loro è quella di generare staff auto affermativi personali. Il provincialismo è un handicap pericoloso. Con il provincialismo le idee se ne vanno in pensieri scomposti, l’urgenza di sfuggire nella rivendicazione impolitica non sopporta la paziente costruzione del confronto. Questo fumo vacuo di parole è, tuttavia, esso stesso un modo per resistere, una, certo impropria, inadeguata forma, direi una formalità indispensabile per testimoniare, comunque, la propria sopravvivenza. Nei Quaderni, scritti in carcere, Antonio Gramsci propone “una nuova cultura integrale”[2], tra quello che noi oggi, un po’ forzatamente nella dizione ma non nella concettualizzazione, possiamo chiamare il locale guicciardiniano e il globale machiavellico. Gramsci propone una nuova praxis, una nuova cultura politica che abbia: · da un lato, “i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano”[3], lo sguardo rivolto alla politica delle città e perfino agli interessi dei gruppi dirigenti di cui è ampiamente connotata la storia italiana, il particolare di Guicciardini, riscontrabile nella amministrazione degli interessi e negli interessi degli amministratori, il locale; · dall’altro, “i caratteri di massa della Riforma protestante e dell’illuminismo francese”[4], lo sguardo rivolto alla politica del mondo e alle idee che lo tempestano, oltre ogni storia, se vuoi senza storiografia, quel pensiero che ha prodotto una “fioritura immediata di alta cultura”[5] e che si sintetizza nella “concezione machiavellica della modernità”[6], il globale. Il Rinascimento locale e la Riforma globale è la nuova sintesi gramsciana, il glocale, dove c’è una “Riforma” che è anche un “Rinascimento” e un “Rinascimento” che è anche una “Riforma”[7]. Nella dialettica gramsciana il glocale doveva essere la sintesi ultima, “il superamento definitivo del confine che ha delimitato la modernità anche nei suoi punti più alti di sviluppo e di progresso”[8]. Siamo un’altra volta a dibattere sulla “nuova cultura integrale” universalistica (francese e tedesca) e umanistica (greca e italiana), machiavelli e guicciardini, come momento fondante della politica in una società in cui ogni azione comunicativa tende ad essere sempre e comunque inevitabilmente glocale, locale e globale al tempo stesso. Non locale. Non globale. Non solo locale. Non solo globale. Non esclusivamente l’uno o l’altro. Entrambe contemporaneamente. Il glocale è la congiunta coniugazione di queste due dimensioni che i populismi antipolitici di varia natura vorrebbero scisse. [1] Gramsci Antonio, QUADERNI DAL CARCERE, Einaudi, Torino, [2] Gramsci A., cit., [3] Gramsci A., cit., [4] Gramsci A., cit., [5] Gramsci A., cit., [6] Gramsci A., cit., Sento già inorridire i cultori della sacralità dei testi, che non trovano in Gramsci questo linguaggio naturalmente, ma questa concettualizzazione si. Basti per tutti una citazione (altre arriveranno se sarà il caso): “Il punto che mi pare sia da svolgere è questo: come secondo la filosofia della prassi (nella sua manifestazione politica) sia nella formulazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del suo più recente grande teorico, la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto «nazionale» è il risultato di una combinazione «originale» unica (in un certo senso) che in questa originalità e unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prendere le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può che essere tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive.” [7] Ciliberto Michele, FIGURE IN CHIAROSCURO, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2001 [8] Ciiberto M., cit., Roma 2001 |
la vita è una produzione di significati > 6 - DISCORSI AD UN PUBBLICO ASSENTE > Le città dalle mappe ignorate >