Le democrazie in cui viviamo non sono le stesse in cui abbiamo vissuto. Prima erano sistemi politici reversibili, potevano tornare ad essere tirannidi, totalitarismi, oligarchie, aristocrazie. Potevano crollare e trasformare la loro forma. La democrazia dei moderni è irreversibile, non può tornare indietro, non può cambiare categoria, può cambiare tipologia, comunque vada resta però sempre una democrazia. Può trasformare la propria morfologia, può estendere o ridurre la propria entropia (il caos, il proprio disagio sociale), può implodere o esplodere, ma resta sempre una democrazia; perché è un network, una rete, e le reti insistono tutte all’interno di un solo intervallo che ad un polo ha il massimo livello di segregazione (network con un centro direzionale che controlla tutte le connessioni) e all’altro il massimo livello di integrazione (network senza centro, in cui ogni singolo nodo gestisce le proprie connessioni con automatismi). I progetti innovativi abbassano gradualmente il livello di entropia indispensabile allo sviluppo delle città e il turn over del ceto politico. Senza innovazioni si rischia costantemente di far implodere il network della città per disaffezione, indifferenza, rifiuto. L’innovazione produce l’entropia indispensabile alle riforme, alla selezione degli automatismi connettivi della integrazione, alla costruzione di strutture conservative di energia sociale. In definitiva, alla semplicità[1] della vita. Il confronto politico tra progetti alternativi sullo sviluppo della nostra città ha il principale ruolo di traduzione progettuale di slogan ipnotici. La società della comunicazione ha indispensabile bisogno di traduttori razionali e decisori ragionevoli. Altrimenti tutto si riduce alla deflagrazione della emozionalità mediatica, uno slogan ipnotico ossessivo, omologante ed escludente. Tutto si consuma in spazi attrezzati e routinizzati da scenari di verità, senza alcuna corrispondenza con la realtà dei luoghi identificati. L’opportunità delle città, se l’habitat politico a cui si adattano inevitabilmente glielo permetterà, è quella del pensiero critico, del confronto appassionato alla discussione politica: la funzione della traduzione dei linguaggi in luoghi di vita e di vitalità. Non uno soltanto spazio organizzato per la propria fortuna personale, una stanza polverosa e vuota, ma in luoghi connotati dal confronto e dalla competente elaborazione dell’azione politica.
Dovremmo invece discutere dei fattori che determinano fatti sociali totali, cioè quei fattori in condizione di spingere autonomamente e direi quasi automaticamente lo sviluppo della città verso una migliore qualità della vita collettiva. Ne ho indicati 3. Questi fattori possono far recuperare alla città l’energia vitale per invertire il processo degenerativo in cui si è incastrata. Sono gli elementi che concorrono alle cose che occorrono. Altrimenti resteremo nella muta acquiescenza, quando ogni voce differente è sentita come voce nemica, in un pericolosissimo processo di omologazione. Quando non si discute dei fattori ordinatori dei sistemi politici, ricorrono parole insignificanti e vacue, parole vuote nella gran confusione della grancassa mediatica. Ogni parte politica si giustificherà degli atti compiuti, ma noi cittadini non possiamo che giudicare i fatti incompiuti e quelli taciuti. Il silenzio è d’obbligo? Non credo. Forse occorre ancora tenere acceso il fuoco del dibattito sulle idee politiche. E se non lo può fare chi vuole disperatamente vincere, lo può fare chi deve prima ancora convincere. Noi possiamo farlo. Senza l’ansia del successo, pur nella consapevolezza partecipata ad uno schieramento, è possibile uscire dall’epitaffio della confusione, guardarsi attorno e vedere una città diversa. Non siamo ancora al fallimento. C’è un patrimonio che sfugge ai proclami e che ancora deve esprimersi, ci sono tante risorse, tante energie soffocate dalle diuturna fatica della sopravvivenza e della ambizione personale. Le bellezze della nostra città sono anche l’emblema della sua inerzia e della sua indifferenza, siamo sempre sul punto di diventare qualcosa che ancora non siamo riusciti ad essere. Quando una città ha tante possibilità che non si traducono in opportunità, vuol dire che manca la politica. Se nonostante tutto la qualità della vita non aumenta, vuol dire che manca la politica. Se nessuno è disponibile a rischiare il suo micro privilegio, vuol dire che manca la politica. C’è rimasta soltanto l’amministrazione tecnica, ad alterne fortune. Ricostruire il tessuto del confronto politico su opzioni di sviluppo per la città del secondo millennio, è questo il terreno in cui cercare il senso e il significato dei tempi che sono sempre nostri. E credo sia il solo terreno su cui si possono ritrovare le ragioni del governo. Altrimenti, essere consigliere comunale, o assessore, o sindaco, in uno dei tanti comuni della provincia italiana, consigliere provinciale, regionale, parlamentare e finanche ministro se non addirittura Premier, quando non è il frutto di un progetto o di una innovazione, è un modo insignificante per perdere comunque e, alla fine, per disperdere la propria vita e la propria intelligenza. [1] differentemente da quanto si ritiene nel senso comune i fenomeni, tutti i fenomeni, vanno dal caos alla complessità e dalla complessità alla semplicità. Questo processo di costante semplificazione di ogni fenomeno avviene con la costruzione di strutture conservative di energia, indispensabili per ridurre il caos ed abbassare il livello di entropia crescente. Nei sistemi sociali la riforma svolge proprio questa funzione: costruisce nuove strutture conservative di energia e abbassa il livello entropico. Se una rifora complica la vita invece di semplificarla è dunque sbagliata in sé. |
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