Le solite vecchie paure

Le solite vecchie paure

In occasione degli attentati di Parigi ed altro

Roma 12.01.2015

 

 

Una bella canzone dei Pink Floyd dice:

Corriamo sullo stesso vecchio terreno

E cosa abbiamo trovato?

Le solite vecchie paure.”

 

Cosa ci resta della turbolenza di questi giorni?

Una violenza senza limiti che scorre lungo le strade di una città che è anche la nostra città, lancinante, ingiusta, ostentata sugli schermi della informazione invasiva della nostra vita quotidiana, tra il pane e la frutta, che esce da una insalatiera e ci devasta continuamente. La sensazione che tutto sarebbe potuto degenerare in ogni momento, che tutto sarebbe stato possibile, che tutto sarebbe potuto andare anche diversamente, anche peggio, molto peggio, che quella violenza senza alcuna dignità, come sempre ogni forma di violenza, non aveva alcun limite. Ci resta la consapevolezza che non finirà, che tornerà, questa violenza è solo una puntata di un infinito macabro appuntamento, da cui esce distruzione, morte e niente altro. Che questa violenza ossessiva e ossessionante tornerà, in un’altra città, in un'altra nazione in un altro contenute, che è sempre la nostra città, la nostra nazione, il nostro continente. E che questa violenza è sempre comunque l’espressione unica di noi umani, che corriamo in cerchio sempre sullo stesso vecchio terreno, dove troveremo le nostre solite vecchie paure.

 

Questa sensazione di inconcludenza, di vuoto da cui non riusciamo ad uscire, di piazze ferme come quelle polacche di Jan Palach, o il labirinto di strade di Parigi, che sono il vecchio terreno dentro cui si rappresentano le vecchie nostre paure, non riguarda solo la violenza terroristica, nazionale o internazionale, religiosa o politica, militare o militante. Riguarda quasi tutte le cose che facciamo, la inconsistenza di un programma di riforme, la infinita serie di aspettative che le verità concorrenti della comunicazione alimentano all’infinito e che, invece, nella realtà della vita nuda e cruda depauperano, svaniscono, si infrangono nell’eterna ripetizione dell’uguale quotidiano. Siamo contornati di parole vuote, concetti vacui, lise giustificazioni, slogan utili per ogni evenienza che assorbono gran parte della nostra energia vitale e ci schiacciano su un proscenio di illusioni morte.

Nell’ultimo libro che abbiamo pubblicato, Liliana Montereale ed io, c’è scritto che la storia è “un labirinto di specchi dove, per uscire, dobbiamo continuamente competere con l’immagine riflessa di noi stessi” e che forse “questo labirinto e questo competere e questi specchi e questa immagine sospesa tra la nebbia e l’asfalto” e che forsequesto nostro volto, questo narciso che galleggia in sporche pozzanghere di pioggia calpestate dagli indifferenti stivali della storia” è  il male assoluto e definitivo che ci attanaglia. Il labirinto di specchi in cui è infinitamente riflessa l’immagine di noi stessi è il terreno su cui corriamo inutilmente, frenati dall’angoscia di ciò che siamo e che non vogliamo riconoscere di essere; le nostre solite vecchie paure.

 

Che cosa ci manca davvero?

Ci manca una prospettiva politica, un orizzonte, una idea di futuro per cui lavorare. Ci mancano parole piene di significati, pensieri che giustifichino, legittimino la nostra presenza nel mondo, senza imbrogli e mistificazioni. Senza un significato che ci faccia volare, non sappiamo davvero per che cosa lavorare e perché e come, abrogare questa violenza ricorrente e ormai irrefrenabile. Siamo smarriti nel quotidiano, nel concreto, nella rincorsa affannosa alle aspettative crescenti. La razionalità non basta. Abbiamo bisogno di ragionevolezza per tenere in equilibrio le mille ragioni multicolori e multiformi, le ragioni mutanti del mondo. E invece tutta questa insignificanza è il prodotto del vuoto ricorsivo degli specchi nella società della comunicazione, di icone,  di immagini che sono soltanto un riflesso religioso, fideistico, evangelico, dentro e fuori l’occidente, di ciò che siamo davvero come soggetti sociali.  

Nel momento in cui scrivo mi giungono notizie dettagliate della strage realizzata negli ultimi 10 giorni da Boko Haram in Nigeria. Una strage che ha prodotto più di 2.000 vittime. Negli ultimi 10 giorni soltanto. 

Sono esterrefatto dal silenzio, meglio, dalla sordina tenuta dai mass media su questo eccidio ricorrente negli ultimi anni. Il mio stupore è tanto più forte se comparato al giusto clamore che ha travolto la comunicazione occidentale dopo l’attentato a Parigi. I martiri occidentali, per i nostri mass media, valgono molto di più dei martiri africani. I morti inseguiti nella foresta di cemento delle metropoli occidentali non sono gli stessi morti inseguiti nella foresta di alberi africana.
Oltre il riprovevole senso morale che questo genera in noi, anche se non abbiamo il coraggio di dichiararlo, questa colpa è il limite, addirittura il deficit politico dell'Occidente. Un deficit che genera morti in tutto il mondo. 

 

Questa colpa che è anche un deficit ci restituisce l'immagine di un Occidente totalmente chiuso in se stesso e sui suoi interessi, indifferente alle regole che governano il mondo. Manca una politica planetaria e questa assenza genera stragi e martiri in tutto il pianeta. È un deficit politico che ci porterà a catastrofi sempre più shockanti e sempre più dolorose. È un deficit politico responsabile, colpevole, dei morti che soffriamo. Il contrasto non è sufficiente e talvolta nemmeno opportuno; perché genera un sentimento di sfida, di competizione salvifica per gli invasati della purificazione del dolore e della morte.

Serve una politica planetaria in grado di ricostruire i criteri di legittimazione delle relazioni nazionali ed internazionali e, sulla base di questi, svolgere una funzione di polizia globale e progressiva nei territori di crisi. Chi crede che Bin Laden sia stato preso grazie ad una efficiente ed efficace operazione militare di rambo americani, vive in un film. Non si attraversa lo spazio aereo di uno Stato nucleare come il Pakistan senza un accordo politico. Non ricordo che ci siano state proteste e non ricordo che ci sia stata opposizione all’operazione militare. Bin Laden è stato preso perché Obama ha cambiato la politica estera americana passando da processi di democratizzazione esogena a processi di democratizzazione endogena. La politica ha risolto il problema non 12 anni di contrasto militare. 

La politica può risolvere il problema del terrorismo internazionale e dei morti nazionali.

La sua assenza, il suo deficit, è la vera colpa dell'Occidente.

 

Quale politica?

Quella di chi vuole sostituire una religione ad un’altra, un comandamento ad un altro, un testo ad un altro, un simbolo ad un altro, un vestito ad un altro, un cappello ad un altro, una teologia ad un’altra teologia, una teocrazia acerrima con una teocrazia più accettabile?

Quale?

Quella di chi sostiene a proprio interesse elettorale  che l’immigrazione porta con sé agenti del terrore islamico? A parte il fatto che gli attentatori di Parigi erano Francesi, usciti (e non entrati) dalla Francia per addestrarsi in Iraq e in Siria; ma il dato più emblematico è un altro. L’Italia è il paese europeo con il più alto tasso di immigrazione (almeno per il fatto di essere la nota piattaforma mediterranea di approdo), tuttavia ha il più basso tasso di attentati terroristici di carattere islamico in tutta Europa e il numero di fuoriusciti per raggiungere i campi di battaglia più basso di tutti (secondo Alfano 53). Il che almeno vuol dire che non è l’immigrazione il conduttore di terroristi in occidente, terroristi che non si formano più nemmeno nelle Moschee e che quindi non hanno troppo bisogno di muoversi. Questi sono dati che è difficile smentire, possono essere occultati dalle urla disperate degli invasati dell’autoreferenza. Ciò nonostante sono, come diceva Bobbio, i duri numeri della storia che bisogna necessariamente considerare.

Questo fenomeno accade anche perché l’immigrazione italiana è più recente e, come l’analisi sociologica può facilmente mostrare, non sono mai le prime generazioni a confliggere in termini di criminalità e in termini di terrorismo. Le prime generazioni devono sopravvivere e quindi sentono il bisogno di occultarsi più frequentemente, di non essere evidenti, hanno la ossessione della regolamentazione, perché non sono regolarizzati, e quindi cercano di restare in penombra il più possibile, di essere il meno possibile evidenti. Sono invece le seconde e terze generazioni, tecnicamente autoctone, cioè nazionali, che non sono immigrati ma sono cittadini regolari dell’occidente europeo, che invece compiono più facilmente azioni violente sia in termini di criminalità organizzata sia in termini di organizzazioni terroristiche. Si tratta, non di immigrati, di cittadini che si sentono emarginati dai meccanismi del potere e che quindi esprimono la loro violenza attiva (e non reattiva, come spesso si dice). In base a tutto questo il problema della religione è veramente secondario. Forse è un acceleratore, ma ogni religione lo è. Almeno ogni religione monoteista fondamentalista. È una scusa, una motivazione, una giustificazione. Se non fosse islamica sarebbe cattolica o ebraica o la fede per una squadra di calcio, ma quella violenza di autoaffermazione (addirittura anche con il suicidio e la morte) non sarebbe eliminata. Assumerebbe, semplicemente, altre forme.

Di quale politica, allora abbiamo bisogno?

Quella di contrasto militare o poliziesco che si fonda sulla propria presunta forza? Quella che volutamente ignora la capacità militare dei terroristi che, a Parigi, oltre le stupide derisioni della stampa cha interpretato come inefficienza alcuni elementi (come ad esempio la scarpa persa e il documento lasciato in macchina) che invece sono l’espressione di un più alto grado di addestramento degli aggressori? Chiunque altro avesse perso una scarpa istintivamente si sarebbe fermato a raccoglierla. Invece il terrorista ha continuato scalzo senza interrompere l’operazione. Solo ad operazione conclusa, lucidamente, ha ripreso la scarpa persa. Non era facile. Bisognava essere lucidi e freddi per bloccare le spinte istintive. Occorre una tecnica precisa. Non sono errori. Sono variabili da gestire. La competenza terribile è nella gestione delle variabili minime incontrollate, che sembrano errori, ma in addestramento sono invece perfettamente pianificate.

Mi stupisce che i mass media non lo abbiano fatto notare, anche perché questa competenza induce a diverse considerazioni. Sarà pure un terrorismo molecolare, come dice il nostro Intelligence, ma si tratta di una molecola di un network molto ben organizzato.

L’attentato a Parigi cambia il livello complessivo dell’azione terroristica. L’unica similitudine possibile, tra alcuni ultimi attentati, è con quello avvenuto alla maratona di Boston. C’è una nuova strategia terroristica di Al Qaeda in Occidente. Cambia l’oggetto simbolico dello scontro e quindi la natura stessa dell’azione. I primi attentati terroristici erano indirizzati contro i detentori simbolici del potere politico. Poi siamo passati ai mezzi di trasporto, aerei, metropolitane, autobus, come simbolo della superiorità tecnologica occidentale nella vita quotidiana. Oggi si aggredisce la libertà di opinione e di stampa, come simbolo della forza cognitiva, interpretativa, come simbolo emblematico della egemonia culturale occidentale sul fatto sociale totale della quarta cosmogonia, dell’era che stiamo vivendo: la comunicazione.

Viviamo nella società della comunicazione e la comunicazione è il fatto che cambia definitivamente la struttura sociale del mondo. Il potere si rafforza o diminuisce in funzione del controllo della comunicazione. E i terroristi di Al Qaeda cambiano simbolo, attaccano i rappresentanti della comunicazione. Denigrare il mito religioso che produce i maggiori adepti alla militanza militare mussulmana, significa minare le basi stesse della forza delle organizzazioni terroristiche. Se lo si fa laddove il reclutamento è strategicamente rilevante, in Occidente in questo periodo, la minaccia alla credibilità religiosa del movimento e alla legittimazione dei suoi leader è fortissima. Visto che soffrono tantissimo la libertà di stampa e la satira, forse la strategia di contrasto più opportuna è proprio quella di portare la satira e la libertà di stampa in ambiente comunicativo a predominanza islamica, laddove le organizzazioni del terrore svolgono la principale azione di propaganda e di indottrinamento delle reclute. L’altra voce, quella del dissenso. è la voce che può distruggere la propaganda di propria auto divinazione.

È questo il punto centrale e conclusivo.

Con i ricercatori del CeAS – il Centro Alti Studi – abbiamo già indicato, in un comunicato stampa tempestivo, il primo aspetto innovativo dell’attentato di Parigi. Gli attentati terroristici islamici sono stati prevalentemente di 3 tipi: all’esterno del continente arabo sono stati di carattere simbolico, come già indicato; all’interno del continente arabo, la maggior parte degli attentati, sono stati di carattere rivendicativo (contro le politiche filo-occidentali o per il controllo di determinati territori) o di carattere vendicativo (contro soggetti oppositivi o individui alternativi – i cosiddetti infedeli).

Il fatto che per la prima volta si scelgano attacchi terroristici di carattere vendicativo al di fuori del continente arabo, significa che i terroristi di Al Qaeda, avendo ormai l’Isis acquisito una sorta di imprimatur nella strategia di formazione del Califfato all’interno della piattaforma continentale araba, si dedicheranno principalmente nel prossimo periodo a trasformare i territori esterni in campo di battaglia. Non illudiamoci che l’esiguità degli attentatori dimostri una debolezza della organizzazione. Nel mondo dei network, la prima regola è che, tanto più è leggera una cellula o un polo, tanto più forte è la connessione. Questa strategia mira ad affiancare ad attentati simbolici una serie di attentati vendicativi tipici delle azioni tra civili in aree limitrofe ai campi di battaglia. Non c’entra nulla la religione. C’entra la tipologia delle azioni tattiche nell’ambito di una strategia generale militante o militare. Che poi tutte le religioni siano un coacervo di violenza e giustificazionismo, questo è noto e con me si sfonda una porta aperta.

Nella società della comunicazione, dunque, per contrastare questa nuova strategia terroristica occorre necessariamente affiancare alla ineliminabile azione di contrasto militare e di investigazione poliziesca, una forte strategia di comunicazione, nelle scuole, nella cultura, in ogni forma di espressione e acquisizione cognitiva dei valori della democrazia e della libertà. Ma più di tutto non bisogna mai avere la sensazione di correre inutilmente su sempre lo stesso terreno e di coltivare sempre le stesse paure. L’assenza di idee, di confronto e di prospettive politiche, l’assenza di progetti sociali credibili, gli slogan utili a favorire questo o quel leader in questa o quella occasione, è una deroga fortissima alla egemonia culturale e alla legittimazione della democrazia. Poiché il vuoto in politica non esiste, la deroga alla politica per la cultura, la deroga al dibattito politico, la denigrazione degli intellettuali e dei giornalisti, comunque ogni riduzione del confronto critico è una caduta di legittimità e quel vuoto politico viene occupato dalla narrazione fondamentalista del terrore. L’unico modo per sconfiggere profondamente i terroristi di ogni risma e tipologia è rafforzare la democrazia.

La democrazia, diceva un giudice israeliano, combatte con una mano legata. Ma proprio perché ha una mano legata, proprio perché alcune cose non le farà mai, la mano che combatte è più forte. L’unico modo per bloccarci le mani è tapparsi la bocca.

Ripeto: di tutti nostri mali la democrazia non è la causa, è il rimedio.

 

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