Lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Monti sulle soluzioni vecchie

Roma 21 novembre 2011

 

 

Forse non siamo molto esperti, ma il Suo discorso, egregio Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Monti, per noi, è stato molto deludente. Sappiamo quali sono i problemi italiani e Lei, Presidente, li ha certo indicati con precisione. Ma, a parte il fatto che per risolverli occorrerebbe un tempo indefinibile e comunque di molto superiore al mandato del Suo nuovo governo, noi crediamo che questi problemi non siano la causa della crisi economica. Possono essere fattori di accelerazione. Non sono però la causa e Lei, Presidente Monti, non riuscirà, con i suoi ministri, ad arginare lo tsunami della economia italiana nel contesto internazionale. Siamo abbastanza certi di questo nonostante che, mentre scriviamo, i mezzi di comunicazione di massa annunciano un rialzo delle borse e quella di Milano in testa.

La causa vera della crisi economica che sta travolgendo l’occidente, dal nostro punto di vista, non è stata minimamente considerata dal  Suo governo, come non lo fu dal ministro Tremonti. Forse perché gli esperti siete Voi e noi non abbiamo eccessiva dimestichezza con gli strumenti della economia europea. O forse proprio questa nostra incompetenza ed estraneità è un vantaggio di osservazione. Collocati in un altro punto di vista, vediamo le cose che non vedono coloro che sono all’interno del paradigma chiuso della politica economica degli Stati.

Per noi la causa della crisi economica internazionale è politica.

Si è scatenata per colpa delle guerre inconcluse che l’occidente ha affrontato e su cui non si è mai davvero confrontato. Per molti anni lo schema logico della economia occidentale è stato costruito sulla propensione al consumo. La nostra ricchezza, nonostante i suoi numerosi detrattori, è stato il welfare state. Senza la propensione al consumo l’economia è lasciata alla bizzarria della finanza e viene sottratta quasi totalmente ai sistemi produttivi.

Le guerre che abbiamo affrontato potevano servire soltanto alle industrie delle armi o potevano generare un nuovo piano Marshall internazionale in grado di sostenere, con consumi adeguatamente crescenti, il sistema produttivo occidentale. Avremmo in realtà potuto farlo anche senza guerre, ma questo è un altro discorso, o meglio, un discorso di altra epoca. Comunque, se avessimo favorito l’espansione dei consumi delle aree che ancora devono cominciare a consumare a livello di massa, o a spendere a livello individuale, avremmo sostenuto l’economia produttiva e non saremmo caduti nelle fauci del mercato finanziario. Invece le guerre che abbiamo affrontato, come fu per la seconda guerra mondiale, non sono passate dalla distruzione alla costruzione, non hanno generato un nuovo piano Marshall, non hanno prodotto propensione al consumo aggiuntiva e non hanno favorito l’esportazione delle nostre imprese. Sono rimaste inconcluse per chi doveva usufruire della libertà post bellica: da una parte, il loro sviluppo; e dall’altra, il nostro mercato.

Le guerre inconcluse sono state un acceleratore della crisi economica dell’Occidente. Per l’Europa, l’acceleratore è senza dubbio l’assenza di un governo continentale. L’egoismo politico di stati obsoleti ha prodotto la povertà e i sacrifici dei loro cittadini. Il futuro, a dispetto dei nostalgici delle morfologie medievali, è un mondo diviso da piattaforme continentali; un format perfettamente adatto per offrire servizi e qualità della vita a un numero sufficiente di cittadini/consumatori/utenti in grado di reggere autonomamente e quasi automaticamente le economie di semi-scala delle nuove imprese telematiche e di quelle vecchie telematizzate. E, tra le piattaforme continentali in statu nascendi, l’Europa potrebbe essere una delle più importanti se non fosse per l’egoismo provinciale  dei suoi dirigenti.

Ultimamente avevamo già scritto: “Di fronte alla egemonia culturale della nazionalità, gli Stati sono diventati totalmente obsoleti, organizzazioni insignificanti, funzionali ai gruppi di potere emergenti e/o conservatori totalmente sconnessi dal network sociale dei popoli. Gli Stati sono: o strumenti tecnocratici per l'affermazione di alcune supremazie senza sovranità delle lobbies finanziarie; o strumenti di repressione teocratica di aristocrazie fondamentaliste. Ciò che sta avvenendo nella geopolitica del mondo è l'esordio del principio di legittimazione della egemonia che troppo spesso scade in supremazia”.

E poi: “La morfologia è quella di nazionalità distese su piattaforme continentali, indipendentemente dalle organizzazioni statali in cui sono suddivise per il potere e l'amministrazione. Grandi piattaforme territoriali di nazionalità che assorbono gli Stati e i loro insignificanti e incontinenti confini; piattaforme di nazionalità egemoniche in grado di autogestire la propria propensione al consumo, il presupposto moderno di ogni ricchezza e di ogni democrazia. Alcune sono già visibili, come quella Nord Atlantica che va dagli USA alla Russia o quella Cinese che domina una parte fondamentale del Sud Est Asiatico tra l'oceano Pacifico e quello Indiano. Altre sono in formazione, come appunto quella araba, quella sudamericana e quella indiana. Altre si formeranno, come quella sudafricana e quella australiana. Insomma, un certo numero di nazionalità egemoniche e spesso sovrapposte, essenzialmente distese su piattaforme continentali trasversali e integrate da sistemi di comunicazione multimediale.

            Cibernetica e territorio.

            Cibernetica sul territorio.

 

            Cibernetica del territorio.”

 

Questa è la condizione del mondo moderno che, se non viene compresa, sprofonderà le economie e la socialità delle democrazie moderne in un vortice di delegittimazione senza ritorno.

 

Dunque la causa politica di questa crisi, al di là dell’acceleratore della inconclusione delle guerre e del processo di unificazione europeo, è il modello di sviluppo. Noi siamo in una irreversibile fase di transizione. Il mondo si sta riorganizzando attraverso nuove forme di scambi economici e con nuove istituzioni, più flessibili, più leggere, per molti versi impercettibili. La strenua difesa di istituti della vecchia economia industriale non ha più senso. Significa buttare i soldi in un buco nero che assorbe tutto senza rendere nulla. È una pazzia. Un governo politicamente all’altezza della situazione economica globale cercherebbe una soluzione nella riforma degli equilibri e degli istituti economici europei. Rincorrere un debito insanabile nelle condizioni attuali è un errore clamoroso. È lo stesso sbaglio che fanno gli imprenditori delle aziende in crisi che, per sanare in debito che li divorano, si divorano nella gestione ossessionante dell’esistente. E falliscono inevitabilmente. Il nostro professore di Scienza Politica, compianto e ancora inascoltato Paolo Farnetti, continuava a ripetere che non si esce da una crisi senza una innovazione. Tanto più se si tratta, come in questo caso, di una crisi di transizione epocale che sta distruggendo istituti e istituzioni della società industriale. Siamo all’avvento della società della comunicazione e i soggetti economici degli Stati europei sono ancora con la testa in una società industriale che non c’è più. Per la schizofrenia dei mercati finanziari basta la dichiarazione di un addetto stampa. Le fluttuazioni sono troppo improvvise e condizionate da parole improvvide. Basta questo a far capire quanto travolgente sia, ovunque, la transizione verso la società della comunicazione.

Il mondo è nuovo ma le soluzioni sono vecchie. Le vecchie soluzioni non risolveranno i problemi antichi e imporranno gli inutili sforzi di sempre. Senza un nuovo modello di sviluppo, in cui la maggioranza del mondo non sia più costretto a subire le bizzarrie della ridotta minoranza di agiati, senza un modello di espansione non inflazionistica dei consumi, senza i nuovi meccanismi di equilibrio della società della comunicazione, non c’è soluzione, nonostante la buona volontà dei tecnici e il buon senso dei presidenti.

E occorre un nuovo modello di sviluppo perché il vecchio modello economico non produce più alcuno sviluppo. Questo è sempre stato il compito della politica. Abdicando al suo ruolo ruolo, perché esclude il progetto temi dal confronto quotidiano, perché segue i processi di banalizzazione dei mass media, perché l’assenza di pensiero critico cancella ogni critica del pensiero, la politica si estranea dal processo decisionale e lascia un pericolosissimo vuoto sociale. Nessuno può risolvere i problemi di un altro. La delega alla tecnocrazia è in qualche modo una sospensione della democrazia. Ma la democrazia non è il problema. La democrazia, come si è dimostrato in Spagna con le nuove elezioni, è la soluzione del problema. Forse dobbiamo valutare il fatto che, gran parte della crisi economica italiana è il frutto di una riduzione della democrazia avvenuta negli ultimi dieci anni. Una riduzione, direi una delegittimazione, dovuta alla assenza di riforma degli istituti e delle istituzioni democratiche durante la transizione d’epoca: da un sistema sociale (la società industriale) ad un altro sistema sociale (la società della comunicazione). 

In ogni caso la rinuncia a decidere della politica non consente a nessun altro di risolvere il problema della crisi strutturale della nostra economia e, in qualche modo, del declino italiano. Perché nessun altro sa farlo. Perché in una democrazia tocca alla politica farlo. Al massimo, il nuovo governo potrà acquisire la opportuna credibilità per una generale ristrutturazione e riconversione del debito. Troveremo altri creditori e ridurremo il deficit di qualche punto con sforzi dolorosi. Alla fine resteremo così, comunque privi di futuro e in ogni caso privati da qualsiasi prospettiva, preda del dominio di una tecnostruttura che passa con estrema semplicità dal governo delle imprese private al governo dello Stato. L’apoteosi delle preoccupazioni di John Kenneth Galbraith.  

Non una parola di tutto questo nel Suo discorso, gentile Presidente del Consiglio dei Ministri italiano. Nessun accenno alla transizione d’epoca. Niente riguardo all’avvento della società della comunicazione e ai nuovi modelli di sviluppo. Una rincorsa alla ristrutturazione dell’ormai inesistente.

Forse però noi sbagliamo.

D’altronde i tecnici siete Voi.

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