Lettera sul clichè e l'archetipo

Maenza, 16 gennaio 2012

     

            quando arriverà l’estate, se arriverà, ci saremo noi? Noi che abbiamo lottato contro il freddo e le intemperie del tempo, per cercare di evitare che il gelo nell’aria e nel cuore degli uomini bruciasse le piante ed i fiori, così delicate, che, con incommensurabile perizia e tenacia, abbiamo coltivato insieme; noi, che in una o mille ore di lavoro intenso e duro, abbiamo trattenuto la terra al suo perenne rischio di sgretolamento, a piantare alberi dove prima c’era solo sterpaglia e poi, cercare un angolo di riposo per pensare, per capire, per sapere; noi, ancora noi, a togliere e mettere sassi, a scavare buche, a canalizzare il flusso delle acque piovane, a governare il tempo, le intemperanze di ogni tempo, affaticati per poter vivere liberi, contro gli spigoli duri e le acute spine di questo piccolo eppure altrettanto accogliente giardino; noi, ci saremo quando arriverà l’estate, se mai arriverà?

Il tempo passa così, senza giustificazione, senza che gli altri accettino il nostro essere nel tempo. Proclamano il loro amore e programmano la nostra distruzione. Sono tutti così. Ma non lo siamo noi. Ancora. Con una pretesa e presunta proclamazione di amore vogliono governare la nostra presenza nella storia; decidere quel che è meglio per noi, e contestare il nostro modo di esistere se questo esistere non è prova provata della loro essenza. Una prova, appunto, una giustificazione all’aver vissuto, certo per comodità e per convenzione, all’ombra di se stessi. E il dirlo ci duole anche perché riguarda qualcuno che comunque ami e che vive, forse vittima della nostra stessa indigenza, espressione di una fraudolenza di cui non ha nemmeno responsabilità, sopravvive al tuo fianco. Ma l’indifferenza verso ciò che vogliamo davvero essere, che sappiamo di essere, è oppressiva, almeno perché è onnicomprensiva. In ogni momento, in ogni luogo, nell’ovunque di sempre, con una pervicacia istintiva e inopportuna, dettano il ritmo di ogni dover essere. E per ottenere un sorriso di accettazione basta fare ciò che reclamano, anche se questa richiesta, feroce, non corrisponde minimamente a quel che siamo. La nostra esistenza deve comunque soltanto giustificare la loro essenza. Viceversa, se ci rifiutiamo, quando lo contestiamo, diventiamo strumenti contro le dure notti dell’inverno. Tenere la nostra casa a riparo costa la fatica del perenne ricominciare. Siamo noi Sisifo, piegati dal peso del masso che dobbiamo far cadere dalla cima del monte per poi riprenderlo e ricominciare lentamente la fatica. E sappiamo, a differenza della iconografia del mito, che ogni risalita è più dura perché quel masso pesa ogni volta di più e le nostre gambe hanno meno forza. Aspettiamo che arrivi l’estate, che il clima sia clemente, quando non sarà più necessario lottare con le asprezze del gelo, quando saremo baciati dal sole del giorno, ristorati dal mare limpido e calmo di qualche scogliera, a prenderci il piacere di piacere, senza città, sul prato a cena nella notti colorate di luna.  Per ora, tra la pioggia e il sole, dentro un vento che spacca la pelle e le labbra, resistiamo, nella speranza che finalmente questa estate attesa prima poi arrivi. Ma potrebbe anche non arrivare. Sono molti i contadini che, per non vivere in casa di altri, si sono consumati come viandanti, vagabondi, clochard in alloggi di fortuna dentro qualche capanna, fulminati dal gelo in una rigida notte d’inverno. La storia li ricorda in qualche racconto, dentro una fiaba o in qualche almanacco serale, oppure, con commozione, in una storia della contrada, magnificando la loro geniale disperazione. La cronaca invece li ha distrutti, derisi, contestati, isolati, insultati, emarginati nelle varie forme della ipocrita sopportazione che non riesce mai a diventare tolleranza. Anche noi potremmo restare tutta la vita a proteggere la nostra casa di fortuna dal freddo. E anche noi siamo sottoposti al rischio di essere consumati dalla disperata lotta a contrastare i rigori umidi nei giorni grigi dell’inverno. Anche noi rischiamo di non vedere l’estate. Quando capisci come deve essere fatta una coltivazione non è detto che tu riesca a vederne i frutti. Quando credi di aver capito come agire, quando credi di aver formulato la teoria opportuna, non è detto che tu ne veda i risultati. Forse sarai confutata molto tempo dopo, quando la casa sarà molto più attrezzata per contrastare il freddo. Forse non lo sarai mai perché costruiranno una nuova casa, senza tenere in alcuna considerazione i simboli e i segni che hai lasciato come testimonianza nel mondo.

Ma non importa. La nostra estate non è nelle cose che faremo, né in quelle che avremo. A questa età io non so ancora se la mia estate è venuta, se è passata, se dovrà ancora arrivare. So che la mia estate sono io, come sono, accolto e rifiutato, accettato o discusso, aspettato o abbandonato. Non importa chi sia stato a rifiutarmi, se abbia sbagliato e quando. Non importa nemmeno l’entità del suo sguardo, il sorriso denigrante, la frase deridente e tantomeno qualsiasi vendetta. La vendetta è ancora una forma di condivisione di una vita a cui non apparteniamo minimamente.  

Il nostro futuro è dentro di noi. Anzi siamo noi stessi. E se gli altri non lo ammettono io non li condivido ma, in qualche modo, li comprendo. Come possono essere loro, noi? E saremmo noi, noi, se loro non fossero loro? Siamo opposti complementari, le due facce che assieme compongono la moneta della vita umana sulla terra. Per loro il futuro è raggiungibile, con un matrimonio, con un lavoro, con un ruolo sociale, con una forma nella vita. Il futuro dell’arte, o della scienza, comunque quello della conoscenza, invece, è irraggiungibile.

Il futuro della vita normale può essere facilmente ottenuto, comprato o conquistato. È in qualche modo già scritto nella tradizione, nell’abitudinario, nella conservazione. Appunto è normale. Basta adeguarsi, basta piegarsi e si trova già lì, bell’è pronto, fatto di mariti o mogli opportune, per bene, disponibili ad essere irretiti nella convivialità familiare, nelle domeniche di pranzi e sport, nella frittura di pasquetta, nel bagno di ferragosto per i figli e nei figli, che sanno dare un plusvalore consolatorio al tutto.

Sento le frasi ricorrenti di un futuro programmato, le attenzioni usuali, il confronto con i pari, gli sforzi impari per dimostrare la propria sfrontatezza contro anni già scritti di espressioni noiosamente recitate, sempre le stesse.

Il futuro dell’arte, della scienza, comunque della conoscenza non è così.

C’è un’inquietudine che non ti lascia mai. Non dorme tranquillo fino alle 8,00 di mattina, non fa colazione, non va tutti i giorni in ufficio e non pranza alle feste in cerimonia.

È un futuro che non si può raggiungere mai, che si sveglia quando vuole, prima che sorga il sole o direttamente il pomeriggio, che non necessariamente deve alzarsi dal letto, che sa stare solo, che scrive un libro di colpo, una poesia come un fulmine, che ti fulmina al dolore più bieco.

È un futuro che non senti, che non vedi. Non è fatto di giorni. È fatto di sogni, spesso di incubi. Non ha pace. Non ha convenzione. Ha soltanto convinzioni.

Il futuro della vita normale è un cliché, deve essere soltanto osservato.

L’altro futuro, quello dell’arte, della scienza, comunque della conoscenza, è un archetipo, deve essere costruito, non c’è ancora,  ci sarà, forse.

L’archetipo è l’originario e l’originale, l’esemplare, l’esistente nel corpo, nella mente e nell’anima, nell’aria e nel panorama, nelle cose create, nel significato di ogni attimo. L’archetipo è semplice e complesso, o è semplicemente adeguato alla complessità del tempo e dello spazio.

Il cliché, invece,  è un rito e un rituale che si ripete “in modo automatico e vagamente simbolico”. Il cliché è sintomo e sintomatico, si estende alla massa, una sorta di allucinazione somatica collettiva che costringe ognuno a ripetere pedissequamente i comportamenti degli altri, gente che vive nel pregiudizio, in alto grado di fissità, in costanza, per abitudine, per comodità, spesso senza sostanza.

Posizionano il loro corpo in qualche posto, in qualche casa,  su qualche cosa, dentro una espressione ripetuta ogni volta per la stessa occasione. Si muovono come sanno, come sanno di sapere, come hanno imparato, per proteggersi. Scrivono lettere abituali, si siedono sul frasario collettivo di un amore apparentemente individuale, dentro le strofe delle canzoni di moda, che conoscono tutti, perché i libri sono luoghi più ostici e difficoltosi in cui depositare la sensibilità preordinata. La musica è più facile, si ricorda prima, si sente subito.  La situazione non conta. Conta il rituale senza rito, “automatico e vagamente simbolico”. Solo vagamente e niente di più. Perché il cliché è una opinione precostuita, una mancanza di fantasia e di immaginazione, la percezione usuale di giudizi usuali.

Il cliché, o stereotipo, ha un campo molto ampio. Sono forme che, più di frequente,  si riscontrano nelle sindromi schizofreniche. Lo stereotipato mostra dei sintomi classificabili. Qualcuno li ha anche classificati in correlazione con altri sintomi. La prima tipologia appartiene a quelli che, ad esempio, usano toccare ripetutamente parti del proprio corpo. In questo caso si tratta di movimenti di difesa contro allucinazioni somatiche. La seconda tipologia si tratta di movimenti interattivi con uno scopo chiaro solo al malato. La terza tipologia appartiene alle condotte cerimoniali, come questa lettera, che fa riferimento a spunti deliranti. Infine ci sono i momenti residuali, come quelli  professionali. Il cliché è sempre in compagnia, è sempre il comportamento di un gruppo, un pregiudizio sociale collettivo, un modo di essere comune, prevedibile.

L’archetipo è solo. Non è una opinione. È una scelta. È una esigenza. È una diversità, talvolta una eccezione, tal’altra un fallimento.  È un dolore, “il selvaggio dolore di essere uomini”. Spesso è una proposta, ingenua, una speranza, un desiderio. L’archetipo è il silenzio di chi abbassa la testa, senza piegarla, la sera, quando torna a casa e non può sapere cosa accadrà domani.

 

Quale dei due ci spetta non siamo noi a scegliere. Sta lì in agguato e prima o poi ci cade addosso, senza volere, senza capire.

A noi è toccato il secondo, abbiamo cercato disperatamente di evitarlo, ma ci è toccato il secondo.

Per quanti sforzi vorrai fare, tu non cadrai mai di là.

Noi saremo sempre qui a sperare che in qualcuno, un giorno, si ridesti l’umano.

E alla fine della nostra vita, quando tutto il loro futuro sarà stato raggiunto e il nostro non ancora, quando arriveremo alla morte, chissà se ci perdoneremo questa decisione di non aver voluto vivere insieme.

Un giorno semplicemente  capiremo che abbiamo avuto, che ciascuno ha avuto, ciò che voleva e poteva avere. Anche se inaccettabile per entrambi, entrambi lo dovremo accettare. Ciascun ha avuto il futuro che si è meritato, chi se lo è coltivato, chi lo ha agguantato, per fortuna, all’ultimo momento, chi non lo ha mai saputo prendere.

Alla fine vedrai che quella maledetta estate arriverà pure. Andrà addirittura oltre e, nel ricordo del nostro passato, vedremo soltanto belle giornate di sole e di mare; e qualcuno al nostro fianco, instancabile, a proclamarci il suo narcisistico assoluto amore prima di programmare la nostra distruzione.

Già ti rivedo ad oziare, se leggere  è un modo di oziare.

Molte cose avremo rimosso.

Credo che l’uomo non possa immaginarsi nel mondo se non legato alla natura, alla sua primigenea condizione di accoglienza senza artificio. C’è un’alba timida, una pioggia in campagna, o al mare, una splendida giornata di agosto. I volti degli altri compaiono dopo; dopo rivediamo chi abbiamo frequentato, chi abbiamo aiutato, chi ci ha condannato e chi ci ha punito. Questa natura ha una sua luce, conformemente agli insegnamenti della vita, ha un odore particolare. Forse profuma di  morte, perché la natura è il luogo dove l’uomo non è indispensabile. La natura può essere una no man’s land, una terra senza uomini. Per questo ce la portiamo dentro, perché può sempre sfuggirci, sempre può superarci, annullarci nella calma schiacciante di un tempo infinito.

Ciascuno ha la sua no man’s land, la terra dove non c’è nessuno, il luogo dove pascolano le speranze, i timori, le angosce, le ansie, qualche sogno, qualche piccola ambizione: dolore. 

C’è in noi una no man’s land dove si depositano e si rivisitano i ricordi, le immagini, gli angoli di un quartiere, di quel quartiere infantile, le strade di una città, gli spazi inusuali proprio di questa città, i rifugi legati all’amore, i residui relegati di quel nostro invadente, invasivo amore. La no man’s land è un luogo inaccessibile, il posto dove si esercitano i pensieri, la stanza disordinata dentro di noi.

 

L’amore cliché lasciamolo a loro, volentieri.

Teniamo per noi,  per i nostri amici, per i nostri figli e per chi altri scelga di accompagnarci, questo meraviglioso amore archetipo che è il mistero di ogni colore.

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