ventiseigiugnoduemilaquattordici
Ciò a cui non possiamo proprio rinunciare, cari amici democratici, ciò che ogni volta ci vincola irresistibilmente, sono le speranze che coltiviamo. Sono calamite talmente profonde nella nostra psicologia infantile, che basta una pur minima occasione, talvolta anche un solo equivoco, per riaccenderle, per scatenarle contro il realismo delle opportunità, questo avvoltoio che giace “nel cestino della carta straccia” o che guarda “giù dal tetto con vile indifferenza” e che si muove un poco alla volta “come la lancetta nera d’un orologio”, nella descrizione indimenticabile di Graham Greene. Aspettano le spoglie del perdente e piccano la sua minorità, blandendo il capo, replicando le sue stesse parole, non una in meno non una in più, per non sbagliare. La nostra speranza invece, nonostante questa omologazione acritica, giace silente in attesa. La nostra speranza rinasce, ora che il M5S dice di essere disponibile a discutere e che Renzi riconosce che, per cambiare davvero il Paese, non bastano slogan elettorali; ma occorre una proposta precisa, competente, direi, professionale. E noi torniamo a sperare che si possa finalmente entrare nei contenuti, senza necessariamente prima dover entrare negli schieramenti. Sarà ancora una illusione? Forse. Tuttavia la speranza che si forma sempre in noi trasforma irrimediabilmente il tentativo in una tentazione. Ed io torno a porre (se non posso proporre) due questioni propedeutiche ad ogni decisione politica nella società della comunicazione. Si tratta di questioni finora inascoltate ed anzi decisamente trascurate. La prima riguarda i fattori morfologici. Per riformare le società moderne, nell’era della comunicazione, bisogna operare principalmente su 3 fattori. Tutti i sistemi della società industriale, nella società della comunicazione sono diventati network. I network tendono costantemente a modificare la loro forma. Alla fine, la loro morfologia è dettata da 3 fattori (che si chiamano appunto morfologici): il fattore fiscale per il recupero delle risorse, il fattore elettorale per la selezione del ceto politico, il fattore comunicativo per la produzione delle idee. La morfologia dei network democratici moderni dipende dalla connotazione e dalle interazioni di questi 3 fattori. Ad esempio, è inutile fare una riforma del mercato del lavoro per recuperare occupazione senza cambiare il fattore fiscale; è inutile inventarsi regole aggiuntive sulla corruzione senza modificare il fattore elettorale; è perfettamente inutile attendersi una qualificazione del nostro senso civico e della nostra attenzione al patrimonio culturale senza una riforma del fattore comunicativo in senso lato, dalla istruzione alla informazione. Nella società della comunicazione i sistemi sociali sono diventati network e la loro forma cambia complessivamente e nei diversificati suoi domini (settori), spingendosi di volta in volta verso l’autocrazia o verso la democrazia. La maggiore autocrazia può talvolta essere un rimedio, ma solo ma migliore democrazia è sempre una soluzione. La seconda questione, naturalmente meno amministrativa e di più lungo periodo, ma altrettanto fondamentale per me, è dunque quella di riformulare, senza dover necessariamente rifondare, il pensiero democratico. Le elaborazioni storiche che conosciamo sono nate e si sono sviluppate nella società industriale e, prima ancora, nella ampia cosmogonia dell’egopower, del potere egocentrico, che va dal regno egiziano fino al rinascimento italiano. Anzi, per essere più precisi, abbiamo avuto diversi concetti di democrazia rispetto alle diverse cosmogonie storiche. Dalla conquista della posizione retta all’impero egiziano, democrazia era compartecipazione comunitaria alle risorse e alle decisioni. Dall’impero egiziano alla rivoluzione industriale, democrazia era una delle forme di organizzazione della politica. Dalla rivoluzione industriale alla caduta del muro di Berlino, la democrazia è stata una tipologia di organizzazione della società e delle sue istituzioni. Da allora ad oggi, siamo passati dal rapporto di rappresentanza (ti voto e tu mi rappresenti) alla relazione responsiva (ad un input comunicativo risponde un output elettorale). Che cosa è oggi la democrazia? In tutte queste enormi epoche storiche il concetto di democrazia è stato ben diverso in una epoca rispetto all’altra; tanto da dover parlare di democrazie al plurale e in relativo piuttosto che usare il singolare assoluto di democrazia. Che cosa è oggi? Viviamo nella quarta mutazione, con l’avvento della società della comunicazione, il concetto di democrazia naturalmente cambia ancora. Solo che noi non la pensiamo più, o almeno non la pensiamo più in modo collettivo. Abbiamo bisogno indispensabile di una nuova produzione concettuale sulla democrazia. Non possiamo tornare indietro. Quello che c’è, c’è. Dobbiamo andare avanti e allora abbiamo inequivocabile bisogno di un pensiero politico nuovo sulla democrazia della comunicazione. Questo pensiero non c’è ancora. Quando si discute, ci si riferisce ad un solo concetto, sempre lo stesso, avulso totalmente dal contesto storico sociale e avulso dalle mutazioni strutturali della società. Vi si aggiunge semplicemente un capitolo sulla informazione, ma una distinzione tra la democrazia delle comunità, la democrazia della politica, la democrazia delle istituzioni sociali e la democrazia della comunicazione, non c’è. L’assenza di questo pensiero politico collettivo ci lascia indifesi e incoscienti nelle mani della autocrazia e non potremo mai costruire le istituzioni democratiche necessarie, all’altezza dei tempi. La minaccia drammatica del potere è che la democrazia, nella società della comunicazione, ha perduto la sua capacità inclusiva. La forza irresistibile della democrazia è sempre stata quella di assorbire le sue stesse contestazioni. L’esempio storico è quello del compromesso socialdemocratico. Le battaglie sindacali contro la democrazia liberale e industriale hanno alla fine incluso i contestatori nella produzione legislativa e rafforzato ed esteso la liberal-democrazia industriale. Oggi la dimensione inclusiva della democrazia è scomparsa perché i sistemi di autocrazia della comunicazione tendono a vanificare le contestazioni, ad isolarle, a sterilizzarle in un’area sanitaria di quarantena e di vacuità relazionale. La democrazia è minacciata per assenza di critica alla democrazia e quindi per impossibilità di autoriforma, per aver perduto la storica capacità di includere, tramite un confronto politico diretto, nella democrazia le stesse accuse alla democrazia. Se prima la democrazia si alimentava dei suoi deficit, secondo la formula di Bauman per cui la società più giusta è quella che pensa di essere ingiusta, oggi non lo fa più. Muore di stenti, anoressica. Oggi, nel potere omologante delle autocrazie non c’è più il pensiero. Troppo faticoso, troppo noioso, meno immediato e auto confermativo di un tweet. Si può essere divergenti, a patto che si sia poco influenti. Nella società della comunicazione basta non essere ascoltati, per essere occultati. E la democrazia non ha più risorse per migliorare se stessa, per pensare se stessa in sintonia con le mutazioni storico-sociali. E non ha più luoghi di formazione del proprio ceto politico. Senza entrare ora nei contenuti, credo che sia indispensabile impegnarsi nella produzione di un nuovo pensiero democratico. Lo dovrebbe fare il partito dei democratici, ma lo possono anche fare naturalmente tutti i cittadini. Questa responsabilità di chiarire i significati è una responsabilità che spetta a tutti. In una poesia bellissima di qualche anno fa Mario Benedetti esprimeva perfettamente questo concetto di emarginazione escludente dell’altro: Chiudo gli occhi e il prossimo non esiste
hanno fine la lotta il mare di oltraggi i padroni del denaro la nuvola minacciosa
hanno fine i tranelli i fuchi che comandano la legge gli eruditi in odio e quella frusta che taglia l'aria
chiudo gli occhi e il prossimo non esiste
però sa vendicarsi
adesso o quando ne ha voglia
può chiudere gli occhi solo chiudere gli occhi
e allora io non esisto. Scrivo questa lettera a voi solo per chiedervi di non chiudere gli occhi, di tenerli ben aperti, di spingere quel dibattito proficuo, entro il quale esclusivamente è possibile trovare le ragioni della politica, in un’epoca in cui la politica sembra sempre più costruire scenari di verità che non sono per niente corrispondenti con la realtà della vita nuda e cruda dei cittadini. Il dramma è che, in deficit di coscienza democratica, si trasformano le verità indotte in realtà prodotte a cui tutti si adeguano in un sistema di vita strutturalmente incontrollato e incontrollabile. Niente più della comunicazione critica ci permette di sconfiggere la comunicazione autocratica. Solo una cultura democratica può sconfiggere l’omologazione della informazione invasiva. Questo compito è spettato tradizionalmente ai partiti. I partiti, però, non hanno seguito il cambiamento della società e si sono trasformati in mere agenzie elettorali. Per il resto non fanno più nulla. Il dibattito sulla nuova democrazia spetta allora alle associazioni e ai cittadini interessati. Ai democratici. |