Lettera aperta a Walter Veltroni sul riformismo italiano

NEI COMUNI ITALIANI ATENE MUORE OGNI GIORNO

 

Voi andate a lavorare in una fabbrica, in un ospedale, in una università, in qualsiasi altra organizzazione sociale in cui vorreste portare il vostro contributo di idée e professionalità. Andate a scuola ansiosi di apprendere e di identificarvi con lo status sociale delle conoscenze, studenti più o meno studiosi, docenti più o meno volenterosi. Poi, in quella organizzazione sociale in cui siete entrati con tanta speranza e senza protezione, liberi perché liberi sono i desideri e libera è la cultura, scoprite una serie di tipologie comportamentali che definiscono e descrivono l’umano: l’indifferenza esclusivamente concentrata sullo stipendio e sulla ottimizzazione del dolce “far niente”; l’arrivismo pronto ad ogni astuzia spesso poco arguta e ad ogni angheria derisoria per ottimizzare il proprio interesse; e poi l’accaparratore, l’equivoco, l’ambiguo, il falso, il furbo, il ladro, l’esteta, l’asceta.  E ti sembrano tanti animali chiusi in un recinto che sprecano il tempo della loro vita alla conquista del loro minimo privilegio, gente che consuma l’essenza della sua esistenza, come diceva Margarite Yuorcenar, nella “diuturna fatica dell’ambizione personale”.

Fino a che non incontri e, prima o poi ti scontri, con il tuo superiore gerarchico che, per il fatto stesso di essere tuo superiore gerarchico, nel pieno delirio di una forza che non ha ragioni e che produce un opposto e complementare delirio di una ragione che non ha alcuna forza, per l’imprescindibile esigenza di affermare un ruolo che non si riesce ad assumere, giocando tra le attribuzioni del signore, dottore, professore e altre amenità con cui si sviluppa la propria auto soddisfazione, ti ordina di compiere un lavoro, diverso dal tuo lavoro, ma non troppo, o di non lavorare soltanto per compiacere alla sua idea di comando, e ti mette così nella storica amletica condizione di reagire o accondiscendere; fino ad allora tu non credevi che esistesse davvero il potere. E pensi che quello sia davvero il potere, nella sua versione minimale, microfisica, nella sua meccanica articolata in un ufficio di provincia, in una piccola azienda, in una università accennata che cerca di uscire dal tugurio e dalla palude della sua marginalità preda della famelica aggressività e della voracità della politica locale. O forse, proprio perché è riferito ad una insignificante struttura di lavoro questo potere negletto del provincialismo ti si scarica addosso, con la sua irrazionale e irragionevole crudezza, per la crudeltà delle questioni stupide, senza senso, rituali e routinizzate, banali, come ogni potere appiccicato ad una presunzione, banali come ogni pretesa.

Ma non è così.

Non è quello oggi il potere. Quella è una mediocre reminiscenza dell’Egopower, una tipologia politica presente per molti secoli nella storia di molti secoli fa, circa dal 1300 a.C a circa il 1.800 d.C.,  e che ha lasciato i suoi ormai ininfluenti strascichi su di noi, nel sistema delle relazioni sociali, laddove meno sono presenti i riflettori e il tubo catodico della mediaticità non evidenzia le nefandenze, nel cono d’ombra dell’audience, dove oggi giace il nuovo proletariato intellettuale. È un potere verticale, essenzialmente feudale, che produce l’illusione di essere padrone del tempo dei propri subalterni, che si vanta della sua solitaria decisione, senza confronto, del suo obbrobrioso comandare senza governare, eternamente preda della baldanza dei sergenti. Il Biopower invece ha governato senza necessariamente comandare, è stato i potere della vita, sulla vita, apparso nella storia della umanità con la crisi del 1929 e rapidamente articolatosi lungo il welfare state e tramite la propensione al consumo, fino ai nostri giorni, simbolicamente fino al 1989, al crollo del muro di Berlino. In tutto questo arco di tempo accelerato il Biopower ha organizzato la vita degli altri per gestire la loro energia, indirizzarla, canalizzarla entro una dinamica del potere fatta di stipendi e protezione sociale, segmenti di mercato e spazi di socializzazione, induzione al godimento e al consumo, trasformazione dei luoghi in spazi di commercializzazione, nella standardizzazione delle forme di vita. La quarta forma di potere, quella che stiamo vivendo, l’Epipower, il potere degli scenari di verità che producono e trasformano la realtà, totalmente cognitiva, vissuta come rappresentazione fenomenologica di sé su internet, in ogni social network, nella assorbente attrazione del video che genera anoressia dialettica e sessuale, assenza di fisicità e una democrazia di nuovo tipo in cui i vecchi concetti della conoscenza appaiono totalmente inadeguati, nella economia, nella politica, nella società e perfino nella filosofia, nella fisica, nella metafisica e nella logica. È un potere che per vincere deve convincere, che si costruisce nelle sue fondamentali strutture sulla capacità di produrre scenari di verità per avere la forza e la possibilità di cambiare e governare la realtà. La prima tipologia di potere, quella più persistente, che ci fa sopravvivere nonostante tutto, eliminando istintivamente tutti i rischi e poi progressivamente tutte le minacce, che ci fa reagire al nucleare, che riduce autonomamente il consumo del tabacco e dell’alcol, che ridimensiona automaticamente l’espansione della droga, che accorcia e restringe in qualche modo le guerre, le malattie ed estende i diritti per tutti rispetto alle multiformi dimensioni della vita, è l’Ontopower, il potere della sopravvivenza fisica.

Ontopower, Egopower, Biopower, Epipower sono le quattro tipologie in cui si è storicamente articolata la filosofia del potere; non solo nella sua meccanica e nemmeno esclusivamente nella sua dinamica; ma nella articolazione dei tre aspetti con cui la filosofia ha da sempre interpretato i fenomeni percepiti nel mondo: la fisica, la metafisica e la logica.

Nessuna considerazione politica può sfuggire dalla consapevolezza di queste forme in cui si articola il potere. L’impressione è che ciò che accade sui mezzi di comunicazione di massa è una dimensione del potere che sfugge totalmente alla dimensione della politica che si svolge in parlamento e non ha alcuna attinenza con la politica che si volge nei partiti e nessuna con quella che si svolge nei comuni. Si ha l’impressione che ci sia una scissione totale, un vuoto, una frattura definitiva tra le diversi dimensioni del potere e della politica. Si ha l’impressione che si consumi nei comuni una dimensione politica primordiale, affogata in interessi che non si controllano perché si ritengono fuori dalla dimensione della politica comunicata.

Quando ti accorgi poi che quel potere famelico della provincia è del tuo stesso partito, un partito democratico dove non si esercita la democrazia, che evita il confronto per poter agire tranquillamente, hai l’impressione di vivere in un partito craxiano di altra epoca, con lo staff al governo del paese e la gang al governo dei comuni. Tutto questo è perfettamente riscontrabile nelle cronache che raggiungono i giornali dalle città e dal governo delle province, anche quelle nordiche, oltre che dalla esperienza di ciascuno di noi, che vive in provincia la condizione di un partito conte Ugolino, che divora i suoi stessi figli, preda di lotte tra interessi di parte.

Caro Walter, la storia della distruzione dei partiti riformisti italiani, è stata tutta lì, in questa non credibilità della capacità di riformare, in una azione quotidiana nei comuni che non era credibile rispetto alle dichiarazioni e alle elaborazioni che si proclamavano nelle sedi istituzionali e nei luoghi comunicativi ufficiali. Ciò che delegittima politicamente i soggetti innovatori è proprio questa distanza tra l’azione ufficiosa e la dichiarazione ufficiale, tra la credibilità dei dirigenti nazionali e l’incredibilità dei dirigenti locali. E quando succede al partito che si oppone, il tuo partito, quello che dovrebbe costruire il futuro, quello che si ispira alla democrazia predicata senza essere praticata, la incredibilità diventa incredulità.

La politica nasce nei comuni. Atene era un piccolo comune di 40.000 abitanti. È stata la realtà, piccola certo, ma che ha generato la forma di governo che tutti desideriamo e lo stile di vita a cui noi tutti ci ispiriamo. In ogni piccolo comune italiano l’innovazione di Atene muore ogni giorno.   

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