Lettera Aperta agli elettori delle primarie PD

LA POLITICA DI MATTEO RENZI

contro il bel volto dell’oscurantismo delle leadership assertive

 

 

Alessandro Ceci

Maenza 5 novembre 2012

 

Io credo che la sinistra italiana, Bersani in primis, dovrebbe sinceramente ringraziare Matteo Renzi. Se non ci fosse stato lui, il dibattito alle primarie sarebbe stato falso e stucchevole. E lo ringrazio proprio per i toni usati, veri, sinceri, finalmente chiari. Matteo Renzi ha dato credibilità a una procedura che altrimenti sarebbe stata retorica e insignificante. Quindi lo ringrazio per la spinta passionaria che ci ha trasmesso e per l'occasione di riflettere che ci ha dato. Lo dobbiamo ringraziare perché ha rappresentato una area politica cattolica, centrista, per molti aspetti democristiana, e lo ha fatto con intelligenza sorniona, sebbene spesso conservatrice, nei modi e nelle forme. Questo atteggiamento ci restituisce una immagine della sinistra articolata, nella ricchezza della sua complessità e nella bellezza delle differenze. Tutti noi coltiviamo sempre la  speranza di una discussione critica. E invece viviamo in una epoca di vero oscurantismo. A me sembra che, purtroppo, tutti i candidati alle primarie della sinistra italiana hanno utilizzato prevalentemente la tecnica berlusconiana dell'autorappresentazione piuttosto che quella democratica della partecipazione (eccezion fatta per la campagna elettorale di Zingaretti nel Lazio). Quindi certamente grazie a Matteo Renzi per la sua presenza e per la sua irruenza; e un grazie grande quanto una casa.

Tuttavia io non lo condivido e quindi non lo voto perché le parole che usa nascondono concetti che già grave danno hanno arrecato al paese. Lui è la ennesima espressione del bel volto dell’oscurantismo di concetti, modelli e parole che imperversa da anni in Italia, sotto il dominio omologante della informazione. In modo specifico, non condivido almeno tre aspetti della sua comunicazione politica.

Il primo è quello di rottamazione. Non perché non ce ne sia bisogno. La gerontocrazia italiana è nota in tutto il mondo e non solo in politica (nei mass media, ad esempio, è ancora più soffocante). È uno dei lasciti della prima repubblica (se ce ne è mai stata un’altra, essendo le successive succursali della prima). E non è nemmeno per la legittima aspirazione dei nuovi dirigenti a sostituire i vecchi. Per ottenere il potere agognato ciascuno cerca le migliori motivazioni. Vero sarebbe che la motivazione principale, se non unica, in un sistema democratico dovrebbe riferirsi al consenso, cioè al voto; ma in ogni paese del mondo vengono poste alcune limitazioni: c’è chi evita la competizione elettorale ai proprietari di mezzi di comunicazione di massa; chi a tutti coloro che hanno la fedina penale sporca; e anche chi preclude l’elegibilità a coloro che sono stati definitivamente condannati a più di due  anni di carcere, visto che i reati amministrativi comportano normalmente una pena inferiore a quella data (la solita ipocrisia del  governo Monti). Si potrebbe introdurre una norma secondo cui, da una certa data anagrafica in poi i cittadini hanno alcune limitazioni ad agire, tra cui essere eletti nelle istituzioni del proprio Stato per lasciar spazio ai giovani. Il problema sta nel fatto che è difficile stabilire, per data di nascita, l’obsolescenza cognitiva. Per la stessa ragione si potrebbe sostenere che, proprio perché privo di esperienza un giovane non offre sufficienti garanzie per alla capacità di gestire i complessi problemi politici moderni e quindi che prima di quarant’anni non ci si può candidare, essendo, l'irruenza delle giovani generazioni dannosa allo Stato. Ma che argomento è? Il certificato di nascita non può certo sostituire il certificato elettorale. Allora si supplisce con il limite di mandato, se non proprio per le assemblee, almeno per gli esecutivi; ma questo argomento è scomodo perche molti giovani, compreso Matteo Renzi, hanno già accumulato una serie cospicua di mandati esecutivi, rispetto a me ad esempio che sono più vecchio, e sarebbero dunque da rottamare. Tuttavia il vero dramma del termine (e della logica) della rottamazione è che ci riporta interamente in una visione del mondo berlusconiana. Non solo per il macismo storaciano dell’età, per la illusione della immortalità a pagamento, per il fascino fascista dell’eterna giovinezza, una primavera di bellezza mascherata dal lifting di giorno e dal living di notte. Nemmeno per la fastidiosa idea che chi non è come me è contro di me. Il fatto veramente obbrobrioso è che quella brutta parola di rottamazione ci precipita ancora più violentemente dentro la monocultura aziendalista in cui chi non è in qualche modo utile, va eliminato. Un mono-tono che giudica la cultura, la formazione, i processi cognitivi con i crediti e i debiti di un qualsiasi bilancio; che considera giusto ciò che conviene e ingiusto ciò che non conviene. E, ricorrentemente, ad ogni capodanno, i futuristi del quartiere buttano il patrimonio della vita e delle esperienze con i frigoriferi arrugginiti.

Il secondo aspetto, dal mio punto di vista, negativo della politica di Renzi è il suo stile di leadership. Vedo un po’ ovunque sopravanzare, nella società della comunicazione, dei leader assertivi. Parlano solo loro. Parlano da soli. Con la scusa della fretta permanente e costante, evitano di ascoltare gli altri, sfuggono al confronto come alla peste perché hanno paura di essere valutati. Arrivano, fanno il discorso che hai già sentito frammentato in tv, fanno qualche battuta che possa essere diffusa mediaticamente, stringono due o tre mani e vanno via. Non cercano il consenso, cercano il sostegno. Non vogliono la partecipazione vogliono l’adesione. Sono leader assertivi. Berlusconi e Beppe Grillo sono l’emblema di questo stile, ma non sfugge Vendola. Anche Renzi è così. Bersani lo è un po’ di meno. Non era così Romano Prodi. Non è così Nicola Zingaretti che offre uno spazio a tutti per contribuire e discutere il programma elettorale. I leader assertivi hanno sempre portato alla sconfitta la sinistra che invece ama per sua natura e per sua cultura una leadership partecipativa. La sinistra è una realtà complessa e multiforme, deve fare della sua diversità una ricchezza strategica. Per questo motivo necessità di una leadership disponibile e colloquiale. La sinistra si omologa ai propri slogan solo se li autoproduce. Ogni volta che si è fidata e affidata a una leadership assertiva, omologante a suo modo, ha subito sonore sberle elettorali. Viceversa ha sempre vinto con leadership partecipative stile Romano Prodi. D’altronde come può governare un partito democratico un leader che rifiuta il confronto critico e la partecipazione, che sono i due elementi essenziali da sempre in tutte le democrazie? Diventano leader disfunzionali, schizofrenici rispetto al loro stesso elettorato.

La terza contestazione che faccio alla politica di Matteo Renzi non riguarda più il linguaggio o lo stile, ma il contenuto. Se Walter Veltroni preferiva i boyscout e Formigoni preferisce i ciellini, Matteo Renzi sceglie l’Azione Cattolica. C’è sempre una chiesa a guidare. E come tutti i buoni democristiani conservatori è meglio frequentare i vescovi e gli arcivescovi per governare il clero e i fedeli. Allora, meglio parlare con gli imprenditori che con gli operai, meglio professare uno spirito di libertà rispetto ad uno spirito di uguaglianza, meglio recuperare le motivazioni della destra che rappresentare le ragioni della sinistra. Non sono più i politici che spostano gli elettorati con uno spirito anche educativo della politica. Sono gli elettorati che spostano i politici con una vocazione opportunistica del messaggio. Naturalmente questo atteggiamento pretigno interessato è lontano dalla mia anima socialista radicale e laica circa un migliaio di anni luce. Si dirà: ce ne faremo una ragione; intendendo: chi se ne frega. Anche questo è legittimo, naturalmente. Ma ci sarà in Italia, prima o poi, qualcuno che a sinistra faccio il discorso della sinistra, che recuperi i concetti, lo spirito della vera filosofia politica del socialismo europeo e che dica, ad esempio, che non è vero che le crisi economiche che stiamo subendo sono il prodotto del costo del lavoro o anche dei diritti sindacali. Se le nazioni più ricche del mondo sono quelle in cui gli operai hanno maggiori diritti e più alti redditi medi; se i paesi più poveri del mondo sono e restano quei paesi in cui gli operai sono meno tutelati e più poveri nonostante l’eccessivo intervento di delocalizzazione delle grandi imprese; forse non significherà, come invece io penso, che quei diritti e quel reddito sono la motivazione di quella ricchezza collettiva, ma almeno non si potrà dire che sono la causa della nostra povertà.

Ci sarà qualcuno che dirà che il nostro modello di sviluppo è ormai finito da più di 20 anni e che, se non ce n’è ancora uno alternativo è perché ogni proposta viene regolarmente oscurata, delegittimata e soffocata dai paradigmi dominanti delle classi dominanti. Ci sarà qualcuno che dirà che la crisi che stiamo vivendo è il prodotto delle guerre inconcluse che questa filippica militarista è dannosa eticamente, politicamente, economicamente; che il mondo sta sempre più riorganizzandosi attorno a piattaforme continentali dove milioni di persone devono ancora cominciare a spendere; che le imprese stanno trasferendo le produzioni laddove i trend di propensione al consumo si prevedono crescenti, lasciando al modello occidentale  l’azzardo dell'economia finanziaria speculativa. Ci sarà qualcuno che vorrà ancora dire che per il mondo del futuro, che per il nuovo modello di sviluppo, per la piena realizzazione della democrazia nella società comunicazione, nell’universo multiforme della rete,  c’è bisogno di più e non di meno socialismo, questo termine apparentemente obsoleto e consunto che è stato la motivazione profonda della ricchezza delle società più avanzate. Tutte in qualche modo socialiste e  riformiste, cioè concentrate sulle politiche dei diritti e dei redditi, le nazioni che dirigono oggi il mondo. Qualcuno dirà che questo socialismo oscurato e di cui si teme l’evocazione potrà essere e sarà l'elemento di equilibrio di integrazione dei nuovi mondi, sia nella forma della politica per la distribuzione dei redditi nelle piattaforme continentali, anche a sostegno delle nuove produzioni e di stimolo per i nuovi investimenti, sia nella dimensione estensiva dei diritti per i più deboli, in una politica planetaria dai tuguri del bangladesh agli anfratti, alla liminalità dei net-interstizi nei network glocali.

E questo infine è il “pippone” di un intellettuale annoiato o l’aspettativa di un cittadino partecipante per una filosofia politica all’altezza dei tempi?

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