In risposta a un interrogativo di Lidano Grassucci: ha senso essere socialista?
Alessandro Ceci Maenza 20 novembre 2012
Diligite iustitiam qui iudicatis terram è sempre stato il motto che mi ha accompagnato, quello che compare quando lancio le mie e.mail, quello che ha orientato la mia scelta politica, quello che indirizza i miei giudizi e talvolta i miei pregiudizi. È tratto dal XVIII canto del Paradiso e me lo porto dietro dal Liceo. Dante mostra la strada "amate la giustizia voi che giudicate la terra": la libertà nasce con voi, in quanto esseri viventi e in quanto umani, ve la da Dio, ma la giustizia è la vostra responsabilità etica, il vostro perenne e permanente impegno politico. È il socialismo prima del socialismo, l’equilibrio dello sviluppo contro la dura irruenza della crescita indiscriminata, la forza piegata alla ragione contro la ragione prostrata alla forza, il potere come energia sociale contro il potere come accumulazione personale, il buon governo della città rinascimentale italiana che cerca ovunque la civiltà della convivenza, la sostanza della democrazia dentro la sua indispensabile forma, o infine il principio universale dell’umanità che può sopravvivere soltanto se riesce a convivere. È il socialismo di sempre: il socialismo per sempre.
Di fronte a questa consapevolezza, la questione non è se ha senso ancora essere socialisti. La questione è che non ha mai avuto senso non esserlo. Oltre le contingenze storiche, su cui si possono aprire infinite discussioni, il socialismo è la responsabilità etica dell'umanità, un preciso impegno, una scelta politica ancora oggi che l'America sceglie, per il suo futuro, il presidente più socialista della sua storia, oggi che i paesi fronteggiano la crisi con politiche di distribuzione dei redditi, quando si ha la coscienza che il mondo non può più essere circoscritto al privilegio della sua minoranza, che non si può più morire per fame o per sete per lenire il nostro incubo dell'aria condizionata, la nostra agiatezza colpevole, contro la mistificazione delle delocalizzazioni industriali che accusano il costo della manodopera e i diritti dei lavoratori e occultano il fatto che i paesi più ricchi sono quelli che più diritti hanno tutelato e che le loro industrie dislocate hanno generato, non ricchezza, ma ulteriore povertà. È il socialismo durante il socialismo, quello del diritto al lavoro come fondamento delle società complesse.
Dice Bauman che la società più giusta è quella che più di tutto pensa di essere ingiusta. Solo se hai questa coscienza puoi raggiungere livelli di giustizia ulteriori. Oltre la responsabilità etica, il socialismo, in questo caso, è la coscienza della propria irruenza, la consapevolezza critica della propria azione, il valore inestimabile della ragionevolezza, in grado di superare qualsiasi razionalità tecnica che sacrifica al pareggio di bilancio la vita dei suoi cittadini. Una società che sa di essere ingiusta seleziona un ceto politico in grado di superare le ingiustizie evidenti e latenti, della estraneazione dalla rete come nuova emarginazione, della espropriazione dei mezzi di comunicazione e degli strumenti della socialità come prima si veniva espropriati dai e dei mezzi di produzione. È il socialismo dopo il socialismo, quella che sempre c'è stato e sempre ci sarà in ogni aggregazione umana, sia essa comunità o società, funzione o prestazione; fuori e dentro ogni organizzazione, sia essa sistemica o organica, burocratica o network.
Non ha mai avuto senso non essere socialisti e dunque ha ancora molto senso esserlo: perché il socialismo di sempre è il socialismo per sempre. Diligite iustitiam qui iudicatis terram. |