Lettera sulle stronzate del paradigma tattico

LE STRONZATE DEL PRARDIGMA TATTICO

 

di Alessandro Ceci

 

Terracina 27.03.2012

 

 

In Italia si dicono una sacco di stronzate.

E forse questa non è nemmeno una caratteristica esclusiva di esperti e commentatori italiani.

L’aggravante nazionale consiste nel fatto che queste castronerie vengono credute fideisticamente, senza nessuna prova né empirica né teorica, e ripetute ossessivamente finché non fanno parte costitutiva ed immutabile della realtà immarcescibile.

Ma sempre stronzate sono.

E poi ci si chiede perché da noi qualsiasi cosa è sempre peggio.

 

La prima di queste emerite stupidagini ce la siamo sorbita per circa venti anni e diceva che siccome Berlusconi era imprenditore avrebbe gestito lo Stato come una impresa o, meglio, che siccome Lui era ricco saremmo diventati ricchi tutti.

Come è andata a finire?

Lui naturalmente sempre più ricco, lo Stato sul lastrico e noi sempre più poveri a pagare i debiti della illusione collettiva. Cosa anche ovvia se si pensa che la ricchezza è una e chi se la prende trasforma in povero l'altro. Si chiama partita a somma zero.  Zero è sempre la somma di tutti gli scambi. Quello che guadagna l’uno, allora, l’altro lo perde. Se uno va a +1 l'altro va a -1. Non c'è altra soluzione. Diventeremo tutti più ricchi se Berlusconi (e quelli come Lui) diventano più poveri. Non c'è scampo. Il sistema di tassazione dovrebbe servire a questo. E invece da noi si tassano i lavoratori per dare i contributi agli imprenditori. Si dirà, questo concetto della economia a somma zero è un concetto vecchio e puramente teorico che vale solo in una economia chiusa. John Nash ha dimostrato invece che collaborando si vince e che la logica della concorrenza di Smith era sbagliata. Mah! Se il singolo Stato è aperto comunque il mondo è chiuso. E allora a qualcuno la ricchezza va detratta. Se non siamo noi, i poveri che ci fanno ricchi, in quanto cittadini occidentali, da qualche altra parte devono stare. Noi non siamo ricchi per volontà divina e nemmeno per nostra abilità. Siamo ricchi per la nostra forza. Noi siamo ricchi perché gli altri sono poveri. John Nash ci ha spiegato che, se gli imprenditori collaborano tra loro, sono tutti più soddisfatti perché noi tutti portiamo comunque a loro tutti i nostri soldi in funzione della tipologia di consumi che le disponibilità  di tutti noi consentono. Non ci voleva tanto. In ogni caso, quelli che collaborano tra loro collaborano sempre contro qualcun altro. E invece noi abbiamo creduto, come incontrovertibile assioma della fede, che il buon Berlusca facesse diventare ricchi tutti quanti noi insieme; se non come lo è lui, quasi.

 

Il secondo assioma incontrovertibile della fede, cioè la seconda stronzata, è che per garantire lo sviluppo bisogna sostenere le imprese.

Dove?

Quando?

Per favorire lo sviluppo bisogna far crescere il mercato da cui le imprese si approvvigionano ed in cui anche si selezionano. Favorire le imprese con privilegi e prebende può significare ridurre il mercato. Senza considerare che i soldi ottenuti le imprese li risparmiano indirettamente. Anziché reinvestire gli utili, infatti, gli imprenditori reinvestono i contributi che lo Stato garantisce per loro togliendo soldi ai consumatori e quindi al mercato con il prelievo fiscale. È come se lo Stato comprasse dalle imprese i prodotti senza che queste passino il vaglio del mercato. È una rendita garantita, una commessa fissa, un altro monopolio occultato. Per cui noi oggi abbiamo la più bassa propensione al consumo d'Europa (perché abbiamo i più bassi stipendi e il più alto prelievo fiscale) e per tenere le imprese sul mercato diamo loro il contributo necessario per resistere. Per assicurare alle imprese gli incentivi ad investire i nostri soldi dobbiamo alzare la pressione fiscale e ridurre gli stipendi e quindi abbassare la propensione al consumo. Le imprese andranno in crisi e noi daremo loro altri contributi all'infinito. È un circolo vizioso assurdo in cui lo Stato fa da mediatore commerciale per le imprese. Però sempre, nel programma della televisione del mattino o della radio serale, c'è qualcuno che ci viene a spiegare che se non si danno i soldi all’impresa non c'è sviluppo. Boh!

Siamo tutti inevitabilmente figli di John Maynard Keynes. La ricchezza nel mondo (e i suoi conflitti) sono il prodotto della propensione al consumo. L’unica propensione disponibile per l’occidente oggi, oltre a quella esterna che non si riesce a governare né con le guerre da esportazione di Bush (processi di democratizzazione esogena) né con le primavere arabe di Obama (processi di democratizzazione endogena), è la propensione al consumo minimale e frammentata del web; dove, infatti, sorgono e prolificano centinaia di piccolissime imprese che sono in grado di assemblare, di clusterizzare, la minimale disponibilità dei consumatori. Queste  imprese raccolgono tanti piccoli euri con la calamita della semplice e comoda applicazione; raccolgono tanti sassolini sparsi e costruiscono un castello, esplodono senza alcun sostegno, comunicando direttamente con il mercato, quello vero, che molti grandi imprenditori italiani non hanno mai conosciuto. Altro che sviluppo. Crescita sfrenata. Di loro non si occupa nessuno: per fortuna. Il punto è: si vuole aiutare l’impresa o si vogliono aiutare gli imprenditori? Non è affatto la stessa cosa. Anzi, c’è una bella differenza. Aiutare gli imprenditori significa permettere loro di guadagnare di più e quindi di risparmiare di più. Se si vuol far crescere l’impresa occorre espandere il mercato e quindi accrescere la propensione al consumo. Giustamente il club degli imprenditori preferisce le rimesse dirette, senza rischiare troppo: “pochi, maledetti e subito”. Per evitare accuratamente i rischi del mercato.  Ma non è forse vero che le società più ricche sono quelle che hanno minor concentrazione della ricchezza? E perché? Perché più alta è la propensione al consumo media.

 

La terza stronzata colossale è che per assumere bisogna licenziare: cioè che per incrementare l’occupazione bisogna produrre disoccupazione.  Ammesso e non concesso che gli imprenditori, ottenuto il permesso di licenziare per motivazioni economiche proprie ed autodefinite, riassumano la stessa quantità dei licenziati, il saldo sarebbe al massimo un pareggio. Ammesso, ma non concesso. Infatti se uno licenzia per motivazioni economiche, perché mai poi dovrebbe riassumere?

Se la sua economia non glielo permette non lo farà nemmeno dopo. Se bluffa in conseguenza ad una ristrutturazione tecnologica non riassumerà certamente. In ogni caso non riassumerà. Se è più economico per Lui stare con meno dipendenti, resterà con meno dipendenti. La mia considerazione parte dalla ipotesi, facilmente verificabile, che la struttura del mercato del lavoro non ha nulla a che vedere con lo sviluppo di un sistema economico, non fosse altro perché l’industria non è più da un pezzo il motore della crescita. Se c’è qualcuno che sa indicare un esempio, cioè individuare un luogo dove lo sviluppo è stato garantito dalla elasticità del mercato e non da altri fatti interagenti, si faccia avanti. Se fosse così, laddove oggi gli industriali dislocano le loro produzioni per un mercato del lavoro addirittura anarchico e sottopagato, dovrebbero esserci il regno della ricchezza e del benessere, investimenti e ricchezza a tutto spiano. Non mi sembra proprio che sia così. Anzi. Io vedo, invece, che le imprese vanno semplicemente a sfruttare, per i propri utili soggettivi, la condizione collettiva di povertà. E non credo proprio che quella flessibilità occupazionale estrema favorisca la condizione sociale della ricchezza. La realtà è perfettamente al contrario:  la ricchezza sociale si è più ampiamente diffusa laddove i redditi dei lavoratori sono più alti e i diritti maggiormente garantiti. E la flessibilità maggiormente controllata. Si tratta della nota “trappola della liquidità” che garantisce una base costante di propensione al consumo allo sviluppo permanente. Ed è semplicemente il meccanismo che ci ha fatto diventare l’area più ricca del mondo. Sbaglierò. Ci si obietta: lo reclama l’Europa e la comunità internazionale. Se non è questa la quarta stronzata poco ci manca: è la prova dichiarata che lo Stato non è più regolatore del bisogno dei suoi cittadini, ma strumento per la legittimazione internazionale dei gruppi di potere, siano essi imprenditori o tecnocrati.  E qui non sbaglio.

 

A mettere assieme tutte queste stronzate, ed altre dello stesso tono di cui si ciba la sintesi comunicativa dei media, che cosa ne esce? Una verità assolutamente non corrispondente alla realtà delle cose. Uno scenario di verità utile ed utilizzato da determinati entourage conservatori, funzionali al fondamentalismo religioso del profitto, che sono perfettamente in grado di tutelare i propri privilegi e le proprie attribuzioni, ma incapaci di governare l’Europa. Siamo tutti imprigionati in un paradigma aziendalista bloccato, dal quale non riusciamo ad uscire, nel quale dobbiamo restare per non cambiare i meccanismi economici e politici in cui i dinosauri delle decisioni strategiche hanno edificato la propria fortuna e la propria competenza. Restiamo incarcerati in questo assolutismo aziendalista che valuta la competenza di uno studente sulla base di una contabilità tra crediti e debiti; che riduce la vita della gente a un bilancio spesso squilibrato e sbilenco, ma sempre funzionale alla stessa struttura di interessi.

 

Vorrei dire a tutti coloro che sono indignati dal politicume corrotto quotidiano, e anche a coloro che non vogliono indignarsi per non dover dissentire dalla loro parte, ai censori e ai giustificazionisti, che tutto questo avviene, tante stronzate si compongono in verità funzionali (e viceversa: tante verità funzionali si scompongono in stronzate), perché manca la politica, la capacità di agire per cambiare le cose, per migliorare la vita delle persone, per aggiustare i meccanismi di apparati obsoleti. La politica che fa delle strutture funzionanti luoghi di vita, che trasforma le decisioni efficienti in scelte efficaci, che soddisfa l’aspettativa di vita degli uomini e non le esigenze di organizzazioni abituate a considerarci soltanto utenti. Quella politica manca e siamo costretti a subire l’ignominia delle utili stronzate di chi deve tutelare, per un motivo o per l’altro, il proprio paradigma tattico, necessario a far percepire una verità che non è  necessariamente corrispondente alla realtà della nostra vita.

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