Lettera sulla democrazia che genera se stessa

LA DEMOCRAZIA GENERA SE STESSA

 

Alessandro Ceci

 

Terracina 31 marzo 2012

 

Una di quelle sere strane, incerte, arrivate per caso, senza la forza di volere la forza, a casa mia, appena iniziata la primavera, dopo una certa ora e a quell’ora, poiché la sera spesso rinfresca, è ancora utile accendere il camino.

I miei cuccioli, bastardi di maremmano, bianchi, Bianca e Bernie, si scaldavano al fuoco che faceva capolino tra ciocchi. Anche io ero li, in una sera primaverile un po’ strana. L’aria era intrisa di rabbia e delusione, qualche tristezza si scioglieva davanti a lampi di fiamma che non riuscivano ad uscire e si intrufolavano nelle fessure del legno. Essere il fuoco che trasforma in cenere il meraviglioso, il faticoso costrutto della natura, o essere la natura che faticosamente costruisce una meraviglia che in ogni attimo può essere distrutta dalla volgare violenza di un fuoco?

Per il nostro privilegio e la nostra comodità, per il nostro interesse noi accendiamo un fuoco e gli diamo in pasto il lavoro paziente di un insignificante seme che, negli anni, con dedizione e passione, con competenza e intelligenza, si è trasformato in un albero.

Che cosa vorremmo essere nella nostra vita, a quale significato vorremmo legarci: a quello del fuoco distruttore, servo del nostro confort, o a quello dell’albero ignaro della brutalità di chi non sa vedere la sua bellezza accecato dal proprio interesse? E certo vorremmo essere fuoco contro il fuoco e albero tra gli alberi. Ma né l’uno né l’altro ci è dato in questi tempi bui in cui la bellezza di un costrutto ideale cede alla interessata contabilità dell’ignoranza.

Davanti al fuoco del camino di casa mia, avvolto dal silenzio riflessivo della stanchezza, frequentavo l’ozio di queste investigazioni. Ero stanco e indispettito dai soldi che non riuscivano ad arrivare, dal tempo che si stringe attimo dopo attimo; e, più di tutto, innervosito dalla esigenza di dovermi trasformare in un fuoco distruttore per un senso di giustizia contro le distruzioni che avevo subìto. Eppure dovevo farlo, io che lo avevo sfuggito per anni quel maledetto fuoco, quella indifferenza della violenza che ti rende protagonista della cronaca e ignoto, ombra della storia. Io avrei voluto essere sempre e per sempre albero tra gli alberi, con semplicità, perché “ciò è raggiungere il più alto”, come dice Borghes, “quello che forse di darà il Cielo: non ammirazione, né vittorie ma semplicemente essere ammessi come parte di una realtà innegabile, come le pietre e gli alberi[1]. E invece noi siamo sempre costretti alla denigrazione e/o alla ammirazione, alle sconfitte e/o alle vittorie.

Io stavo lì, a sentire nell’aria questi pensieri che non si componevano in alcuna morfologia, mentre i miei cuccioli bastardi di maremmano si scaldavano al calore irruento del fuoco, a sentire nell’aria una serata strana, di una primavera appena accennata. Finché il suono del telefono non squarciò il mio torpore, quello di Bianca e Bernie, abituati a dormire accovacciati l’uno sull’altra, come fanno i cuccioli, a reciproca protezione. Risposi a chi, per amore, si preoccupava a distanza del mio silenzio e della mia solitudine. Poi, tra una confidenza e una considerazione, mi chiese che cosa stesse succedendo in Libia. Già. La Libia. Oggetto di tanta attenzione e studio durante la guerra al Rais. Mi sembrava lontana nel tempo. Eppure aveva da poco finito di ardere al fuoco della rivoluzione. Molti piccoli incendi ancora resistevano. Non si vedevano alberi.

Sapevo benissimo cosa stava succedendo il Libia. È lo stesso processo che si verifica in tutti i paesi della primavera araba. In parte si sta verificando anche da noi, in Italia. Sono processi di democratizzazione endogena. Un mutamento nella politica estera americana con l’avvento al potere della Presidenza Obama. Prima i Bush, Senior e Junior, avevano chiamato tutto il mondo occidentale ad inaugurare processi di democratizzazione esogena nei paesi di cui si aveva interesse a gestire il petrolio e la propensione al consumo. La famosa democrazia da esportazione, impossibile da attuarsi, ma necessaria per giustificare la presenza degli eserciti e i morti di entrambe le parti. Obama ha in parte ritirato gli eserciti, tanto da meritare un premio Nobel anticipato, e favorito processi di democratizzazione endogena, nati dall’interno degli Stati per cambiare la classe dirigente di quei paesi per ottenere con un consenso pilotato ciò che altri avrebbero voluto ottenere con la forza. Sennonché la democrazia si afferma lentamente. È una forma di governo e al tempo stesso una situazione sociale, un sistema relazionale, una procedura formale, condizione sostanziale, una cultura. La democrazia è una complessità. Necessita di essere radicata nel cuore e nel corpo della gente per essere affermata. È un processo che richiede la partecipazione condivisa di ciascuno per essere trasferita nel sistema di rappresentanza politica. Paradossalmente, per esserci, la democrazia non deve esserci mai. È, come si diceva una volta, uno statu nascendi perpetuo; come la società di Bauman, che è giusta solo se pensa di non esserlo mai. È fatta di processi che devono radicarsi e dalla lenta sperimentazione delle procedure. I meccanismi della democrazia non sono mai efficaci per definizione. Devono essere esercitati per essere falsificati. Il ceto politico, impropriamente definito classe dirigente[2], deve essere selezionato negli anni. Per questo è indispensabile porre un limite alla presenza al governo dello Stato. Per evitare la personalizzazione e favorire la selezione, anche se non sempre la qualificazione, del potere. Il potere va, in qualche modo, spurgato. La democrazia ci riesce con il limite di mandato al governo del Paese[3]. In questo modo la democrazia obbliga ai meccanismi di falsificazione, direbbe Popper, di  essere operanti. In questo modo sarebbe possibile anche per uno Stato sperimentare senza rischio eccessivo, aprirsi alla innovazione senza traumi, e quindi selezionare istituti, istituzioni e personale politico. La democrazia deve sempre evitare al potere di incancrenirsi fino alla putrefazione. Pena, l’assenza della democrazia.

In Libia, dopo i circa 50.000 tra morti e dispersi, restano naturalmente le milizie attive. Tra un poco si voterà. E questa elezione naturalmente non sarà risolutiva dello status dello Stato. Ci saranno brogli e confusione. Ma intanto si vota. Poi si rivoterà e i meccanismi miglioreranno. Pian piano, tanto più i meccanismi di falsificazione funzioneranno tanto più sarà accelerato il processo di democratizzazione e altrettanta democrazia si diffonderà nel sistema politico, economico, sociale e culturale. Alla fine, tra un certo numero di anni, se il sistema politico tutelerà i meccanismi della democrazia, noi avremo un’altra Libia, in una condizione di legalità irreversibile, perché permanentemente proiettata in avanti, a migliorare se stessa, senza tornare indietro, con dirigenti politici sempre più all’altezza dei tempi e dei popoli. La democrazia è auto poietica: se c’è, genera continuamente se stessa. Se si ferma, s’inverte. Ma se continua, il processo di democratizzazione toglie spazio, lentamente, con calma, ad ogni suo nemico, ad ogni residuo di tirannide e perfino di totalitarismo[4] che nella democrazia stessa spesso si annidano. Succede in tutti i paesi della primavera area, come nei paesi ex sovietici europei e dell’area balcanica, Russia compresa. Succede anche in Italia.

In Italia, in estrema sintesi, abbiamo avuto un sistema politico di democrazia parziale, di semidemocrazia, per circa 50 anni. Un ceto politico sostanzialmente bloccato. 5 mafie. 40 anni di terrorismo interno rosso e nero. Apparati deviati. Lo Stato che produceva tensione sociale come strategia politica. Corruzione ed evasione a tutto spiano. Eversione sociale. Ogni degenerazione del potere tollerata, addirittura giustificata dalla minaccia comunista. Inoltre, un sistema politico totalmente mediato dai partiti: appunto un totalitarismo partitocratico. Lo Stato stesso, nella storia italiana, fu generato dai partiti e costruito passando dentro i partiti. Infatti, in Italia, quando lo Stato non c’era ancora i partiti già c’erano. Quando non c’erano segretari comunali, istituzioni provinciali e regionali, organi e organismi di controllo e dei polizia, i partiti già c’erano. Il che poteva essere anche una cosa positiva, visto che senza dei partiti restano i tiranni. Il dramma nazionale è stato l’avvento dei partiti totalizzanti[5]: il dramma è stato che tutto il resto è stato costruito passando dentro la mediazione, direi il taglieggiamento e l’affiliazione a partiti politici che decidevano senza essere controllati da nessuno, indipendentemente da ogni regola e da ogni regolamento, in un limbo di controllo, in un potere puro, anzi, di pura forza, vissuto nel vuoto di ogni norma. Un sistema così bloccato, senza alcun ricambio in tanti anni e sempre con lo stesso ceto politico, o comunque con sostituzioni che venivano accettate solo se omologate, accolte solo se coinvolte, presenti solo se acquiescenti, ci si stupisce che sia esploso solo dopo 50 anni. E non prima.

Dal crollo del 1993, nonostante che gran parte delle cose siano ancora sempre le stesse, tuttavia il processo di democratizzazione italiano è andato con pigrizia interessata avanti. Potremmo dire che siamo passati dal totalitarismo dei partiti politici, alla monocrazia televisiva della comunicazione politica. Ma i governi sono stati votati, sono cambiati, i leader sono stati allontanati e recuperati sempre dopo una consultazione elettorale incisiva sulla attribuzione di potere. Prima invece il posto al Governo era una rendita garantita. La inutilità del voto, nella politica precedente, era assoluta. Che vincesse o perdesse il pentapartito comunque governava. Oggi almeno, se uno vince governa, se perde si oppone o se ne va. Il processo di democratizzazione, con fatica, va comunque lentamente avanti. Prima il blocco politico del potere lo aveva invertito. Il processo è molto lento (prevalentemente a causa di una riforma elettorale sbagliata e di un sistema fiscale che non si riesce a riformare)[6] e noi ci portiamo addosso ancora gran parte le nostre annose insufficienze. Tuttavia andiamo avanti e, se ci impegnassimo di più, forse potremmo riuscire ad accelerarlo questo benedetto processo di democratizzazione. Molto in ogni caso dipenderà dalla prossima riforma elettorale[7].

La democrazia insomma è così per tutti: se non procede s’inverte. Quando si è invertita (come accaduto anche a noi) farla procedere è davvero difficile e lento. Il rischio che un fuoco violento riduca di nuovo in cenere gli alberi, cioè che ardano le meravigliose istituzioni della civiltà politica, come ad esempio il parlamento, è forte, fortissimo. Vedo un fuoco alimentato, da una parte dalla incapacità di riformarsi e dall’altra dalla crescente demagogia populistica e spesso qualunquistica, che ha incenerito prima i partiti ed ora sta bruciando il parlamento: prima gli istituti e poi le istituzioni. In ogni camino ardono prima i rami più piccoli e più secchi, poi i ciocchi più grandi e più verdi.

Chiudo il telefono con la promessa di scrivere un articolo; questo articolo. I miei cuccioli bastardi di maremmano hanno ripreso a dormire. Il fuoco si è spento. La legna consumata. È rimasta brace soltanto. Porto i cani alla loro cuccia. Chiudo tutto e vado a dormire. Il fuoco intorno a noi è tanto. Talvolta anche dentro di noi, quando siamo di fronte a soprusi incommensurabili ed incomprensibili. In ogni attimo della nostra vita ci si pone il dilemma se accettare la sfida di un processo di democratizzazione da spingere in avanti o se fermarsi a consumare il godimento del proprio potere e, dunque, spingere o invertire ogni processo di democratizzazione. E mentre salgo le scale verso la mia camera, non so ancora che cosa sarà domani; cosa sarò, se fuoco con il fuoco o albero tra alberi. E non so cosa dovrà essere per la democrazia che verrà. Forse ricorre all’etica può servire a non mischiare le cose ed evitare di morire arsi dall’aridità. Non so. Forse.

Alla fine però una buona dormita è sempre una soluzione.



[1] Si apre il cancello del giardino / con la docilità della pagina / che una frequente devozione interroga / e all’interno gli sguardi  / non devono fissarsi negli oggetti  / che già stanno interamente nella memoria. / Conosco le abitudini e le anime / e quel dialetto di allusioni / che ogni gruppo umano va ordendo. / Non ho bisogno di parlare / né di mentire privilegi; / Bene mi conoscono quelli che mi attorniano, / bene sanno le mie ansie e le mie debolezze. / Ciò è raggiungere il più alto, / quello che forse ci darà il Cielo: / non ammirazioni, né vittorie / ma semplicemente essere ammessi / come parte di una realtà innegabile, / come le pietre e gli alberi.

 

[2] A rigore quella dirigente non mai una classe. I rappresentati politici che arrivano ai vertici decisionali provengo da diverse condizioni sociali ed economiche, quindi da diverse classi. Quello dirigente è un ceto sociale che include i nuovi arrivati a riti e ritualità convenzionali.

[3] Naturalmente mi riferisco agli esecutivi e non alle assemblee. Dal mio punto di vista i due istituti, in una democrazia davvero funzionante, dovrebbero essere totalmente scissi; anche eletti in tempi e modi differenti: con il maggioritario puro gli esecutivi (ogni 5 anni) e con il proporzionale puro le assemblee (ogni 3 anni). Ma questo è un altro testo.

[4] Nella particolare forma che assume il totalitarismo nella società della comunicazione, che riesce ad esistere anche senza essere totale, nonostante ci siano cioè aree autonome (ma non libere, sempre condizionate) e che definirei meglio a “supremazia totalizzante”  o, meglio ancora, “monocrazia”. Ma questo pure è un altro testo.

[5] O, come l’ho chiamato prima, totalitarismo partitocratico.

[6] Che sono gli addensatori di energia di ogni processo di democratizzazione.

[7] In una democrazia ci sono due “addensatori di energia” fortemente incisivi, direi determinanti, della morfologia del sistema politico: il meccanismo elettorale – cioè la selezione del ceto politico e dei suoi progetti di innovazione – e il meccanismo fiscale – cioè il criterio di allocazione e di distribuzione delle risorse. Entrambi, per essere credibili e legittimati, devono essere visibili e comprensibili: devono essere semplici.

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