Alessandro Ceci Maenza, 5 ottobre 2012
È certamente legittimo, come sostiene Marco Cattaneo sul numero de “Le Scienze” del mese di ottobre 2012, “sorprendersi dell’incredibile raffinatezza che ha raggiunto la nostra capacità di indagine della natura”[1]. La Fisica ci fa “riconoscere entità che non potremmo mai vedere”[2] e, in questo senso, davvero la scienza è “lo strumento più credibile a cui affidarci per progettare il nostro futuro”[3]. Questo però non accade per le scienze sociali. Perché? Eppure non dovrebbe essere impossibile. Anzi, per certi versi dovrebbe essere più semplice. Le scienze sociali hanno una storia millenaria da cui attingere per individuare frequenze e ricorrenze, per scorgere regolarità e regole, addirittura per definire regolazioni e regolamenti. Le scienze sociali non procedono al buio, ciò che avverrà nel futuro prossimo non può che avere riferimenti inequivocabili nel presente, così come è possibile individuare oggi i segni indelebili di ieri. Addirittura siamo nella condizione di saper valutare, una volta riprodotti in un habitat simulato, “nel vasto mare delle possibilità non attualizzate e perse per sempre”[4], quelli che Mauro Ceruti ha chiamato i contropassati e/o i controfuturi, come prodotto della convergenza “delle scienze della physis e delle scienze del vivente”[5]. Entrambe hanno mostrato a tutti noi: “che nel tempo ordinario della nostra storia umana esistono tanti passati e tanti futuri, e che questi passati e questi futuri operano nel presente e questo su di essi, in un circolo che non ha fine”[6]. Tuttavia, al fianco di tutta questa enorme vastità del vissuto, c’è l’incommensurabile dimensione del vivibile, delle possibili alternative, della vita che si sarebbe potuto avere e non si è avuta, di quella che si potrebbe avere e non si avrà perché, delle tante ipotizzabili opportunità, se ne possono scegliere soltanto poche, quelle ridotte a disponibili. Infatti, se “tutte le nostre interpretazioni del passato e i nostri progetti sul presente implicano inevitabilmente una serie di contro passati, e che questi contro passati sono la vera radice del futuro”[7], inevitabilmente, in ogni istante del nostro presente, convivono, per tutti noi e per ciascuno di noi “una serie di futuri e di controfuturi”[8]. Sono le alternative possibili, tra le tante probabili quelle che non abbiamo vissuto e che avremmo potuto vivere, ma anche quelle che possiamo decidere oggi di vivere ancora per definire il range delle nostre future possibilità. È la nostra reale opportunità perché “dinanzi al futuro i giochi non sono mai fatti”[9]; è il nostro modo di continuare, “di insistere a turbare il futuro, nel tentativo di riaprire un futuro, di proporre dei contro-futuri”[10]; e, come ci ha insegnato Edgar Morin, è il più alto valore della politica, la necessità insostituibile della politica per il genere umano proprio oggi che ne conosciamo la potenza, la dimensione reale della politica di fronte a “un insieme di potenzialità con esiti differenti a seconda delle scelte future”[11]. Dunque, per le scienze sociali questa capacità previsionale è, non solo più facile, ma altrettanto utile, necessaria, indispensabile e allora auspicabile. Anche un fenomeno rivoluzionario, che cambia tutto improvvisamente, ha una sempre una evidente insorgenza. Niente è più percepibile dei fenomeni sociali che si costruiscono sulla pelle e la storia delle persone. Teoricamente dovrebbe essere più difficile per le cosiddette scienze matematiche e fisiche, il cui futuro è il grigio equivoco di una ipotesi teorica che si illumina solo quando riceve un inconfutabile riscontro. I fenomeni delle scienze sociali sono rintracciabili, invece, hanno e lasciano una orma indelebile, nel passato, nel presente e che evolverà secondo una serie di ipotesi controllabili nel futuro. E tanto più forte è il fenomeno sociale, tanto più profonda è questa orma: “l’evento ha in sé le condizioni della propria nascita e del proprio svanire, ed è connesso con il passato e con il futuro attraverso una rete di risonanze non univoche e non predeterminabili”[12]. Allora perché no? Perché questa capacità previsionale non si è sviluppata laddove doveva essere più facile che si sviluppasse? Io credo che questo dipenda essenzialmente dal basso profilo teorico delle scienze sociali, spesso rifiutato in omaggio ad una concezione della scienza empirica epistemologicamente insignificante. Le scienze matematiche e fisiche hanno sviluppato una corposa capacità di elaborazione e controllo teorico, grazie al quale riescono a vedere l’invisibile. Tutte le scoperte scientifiche riconosciute valide degli ultimi due secoli hanno avuto soltanto una ipotesi teoricamente fondante. Per riportare gli stessi esempi di Marco Cattaneo: “Nel corso del XX secolo le teorie elaborate dai fisici sono riuscite – e più di una volta – a prevedere l’esistenza di particelle scoperte poi dopo anni, se non decenni. Il primo fu il neutrino, come ci ricorda Jeremy Bernestein. Wolfgang Pauli lo aveva ipotizzato nel 1930, ed Enrico Fermi aveva elaborato una teoria del decadimento beta due anni più tardi, ma non fu osservato fino al 1956. Ci vollero appena cinque anni, invece, perché Carl Anderson trovasse la firma del positrone, descritto da Paul Adrien Maurice Dirac nella equazione quantistica relativistica per l’elettrone”[13]. Fino a riconoscere che “il record spetta al bosone di Higgs, finito nelle maglie del Large Hadron Collider mezzo secolo dopo che Peter Higgs ne aveva esposto l’esistenza”[14]. Ma di casi di questo genere se ne potrebbero riempire intere librerie. Senza una competenza teorica la capacità previsionale della scienza fisica e matematica sarebbe ridotta a zero. Senza competenza teorica non c’è produzione scientifica. Ciò nonostante, nelle scienze sociali i teorici vengono scansati come gli appestanti, quando non vengono derisi o emarginati per la loro astrazione. Siamo tempestati da dati statistici che non servono a niente e che non dicono niente perché non hanno una teoria da falsificare. Anzi, per meglio dire, i dati statici vengono piegati a giustificazione di ipotesi logicamente non controllate e tanto meno validate. Ma poche, pochissime teorie complete. Eppure è proprio la competenza teorica, cioè la capacità di affrancarci dal concreto, che ci distingue in quanto umani dal multiforme universo animale. Plessner ha indicato nella capacità di essere eccentrico, cioè al di fuori della centralità dei propri bisogni, la connotazione umana. Questa eccentricità è appunto la capacità di vedere da un sasso un palazzo o la punta di una freccia, da un ramo un arco flesso da una corda e in grado di colpire con una freccia un animale molto più grande in movimento. Appunto: la competenza teorica. Invece le scienze sociali considerano la teorizzazione eccessivamente dannosa, fantasiosa, estranea alla concretezza della vita quotidiana. Eppure già Merton aveva denunciato che “i sociologi sono stati a lungo gli ierofanti della metodologia, distogliendo, forse, in tal modo, talenti ed energie dal compito di costruire una teoria sostanziale”. Dopo, prima e durante Merton[15] le denunce sono state tante e ripetute, ma se prendiamo il testo di Ferrarotti[16] che si studia all’università, i “principi direttivi della ricerca stessa” sono: a) la ricerca orientata b) la variabile emergente c) l’ipotesi di lavoro d) le operazioni di verifica e) la interpretazione complessiva. La produzione del paradigma teorico di riferimento, non c’è. Si dirà che si evince da tutto questo. Certo. Ma non è sufficiente. La teoria non può essere evinta. Deve essere prodotta e dichiarata, altrimenti non è controllabile e non è logicamente confutabile. Vale per l’analisi di un fenomeno non osservabile, per un fenomeno osservabile e, più di tutto, per un modello previsionale. La competenza teorica, quando è logica della interpretazione e non logica della illusione[17], è il valore aggiunto della epistemologia moderna e, proprio per questo motivo, nell’era della produzione di scenari di verità nella società della comunicazione, è il vincolo connotativo della democrazia contemporanea. Ma questo è un discorso successivo. [1] M. Cattaneo, SCIENZA E PREVEGGENZA, in “Le Scienze”, ottobre 2012, n.530 [2] M. Cattaneo, cit., 2012 [3] M. Cattaneo, cit., 2012 [4] G. Bocchi – M. Ceruti ,ORIGINI DI STORIE, Feltrinelli, Milano [5] G. Bocchi – M. Ceruti, LA SFIDA DELLA COMPLESSITA’, Feltrinelli, Milano, 1985 [6] G. Bocchi – M. Ceruti, cit., 1985 [7] G. Bocchi – M. Ceruti, cit., 1985 [8] G. Bocchi – M. Ceruti, cit., 1985 [9] E. Morin, INTRODUZIONE A UNA POLITICA DELL’UOMO, Meltemi, Roma 2000 [10] E. Morin, cit., 2000 [11] E. Morin, cit., 2000 [12] M. Ceruti, “OFF THE LINE”, in IL CASO E LA LIBERTA’, Laterza, Bari 1994 [13] M. Cattaneo, cit., 2012 [14] M. Cattaneo, cit., 2012 [15] R. K. Merton, TEORIA E STRUTTURA SOCIALE, Il Mulino, Bologna 1959 [16] F. Ferrarotti, LA SOCIOLOGIA, Eri, Torino 1977 [17] I. Kant, CRITICA DELLA RAGION PURA, in OPERE, UTET, Torino, 1967 |