Lettera sulla radicalizzazione

Il 14 settembre 2010, in una calda giornata di fine estate, nella città israeliana di Herzilya, tra una relazione in inglese serbo e un’altra in inglese greco e io che conoscevo un inglese italiano,  sottoposto a una serie di impressioni e infinite preoccupazioni sul problema della radicalizzazione religiosa, anzi islamica, religiosamente radicalizzato presso l’IDC, organizzato da IC, invitato da ICTAC, il 14 settembre 2010, durante un workshop sulla radicalizzazione islamica, comunque fondamentalista, tra tante idee senza dati e dati senza idee, impressioni, previsioni, congetture e confutazioni, ipotesi e argomentazioni a cui bisogna credere per fede, religiosamente, a controprova che la radicalizzazione era effettiva anche tra noi, sebbene non ancora oggettiva, allora, all’improvviso, in quel 14 settembre 2010, forse improvvidamente, mi sono chiesto perché mai la radicalizzazione di una religione debba costituire un problema politico così preoccupante. Non è forse inevitabile? Non forse sempre avvenuta? Che cosa è, se non una radicalizzazione, l’enorme azione di evangelizzazione della Chiesa Cattolica?

Di fronte alle varie civilizzazioni culturali, compresa quella del liberalismo industriale di cui siamo noi vittime, la islamofobia del mondo non è forse eccessiva? E perché siamo così preoccupati? Perché la radicalizzazione di una cultura o di una religione ci ossessiona così tanto?

Perché non è la nostra.

Quanti sono i simboli e i segni, le procedure e le pratiche a cui siamo sottoposti, anche senza essere cristiani o ebrei, ogni giorno, come azioni costanti di radicalizzazione e di imposizione culturale? E quelle radicalizzazioni che assorbiamo normalmente, regolarmente, quotidianamente, non sono forse altrettanto violente di quelle che subiamo quando la radicalizzazione islamica muta, cambia, si trasforma in una azione terroristica? Non sono state altrettanto violente le radicalizzazione cattoliche, ebraiche, religiose e perfino laiche? Non è stata altrettanto violenta politicamente una maniacale radicalizzazione della democrazia da esportazione?

L’unica differenza è che questa radicalizzazione semplicemente non è la nostra. E allora la temiamo.

Io non ho paura.

È la stessa fede acritica di sempre.

La stessa pretesa di assoluta conoscenza e giustizia.

La radicalizzazione, come ci ha insegnato magistralmente Assmann, è cominciata in Egitto, con la socializzazione verticale, con la gestione della politica in terra e della salvezza divina. Ha prodotto molti morti, certo, e moltissimi martiri; ma è sempre lo stesso assoluto tentativo di trasformare una metafora religiosa in un modello culturale. O meglio, quando una metafora religiosa si trasforma in un modello di vita, determina sempre un processo di radicalizzazione.

Perché finché abbiamo a che fare con metafore, allora si tratta solo di rispecchiamenti o di impronte della realtà sociale nell’ambito del linguaggio e dei testi. Quando invece abbiamo a che fare con modelli, allora il pensiero, il linguaggio e i testi si ripercuotono sulla realtà modificandola e trasformandola, con conseguenze incisive nell’ambito dei legami sociali e politici. In questo caso la religione si crea il suo contesto sociale. Qui non siamo più in presenza di un mero rispecchiamento, ma di una trasformazione della realtà sociopolitica[1]

E allora, perché siamo preoccupati se sta avvenendo, né più né meno, quello che è avvenuto sempre, all’incirca negli ultimi 4000 anni?

Questo fenomeno è stato denunciato, con lo stesso sistema di soggettiva affermazione, a cui bisogna credere per fede, senza verificare mai un dato tra presenza islamica e capacità di azione terroristica. Ho l’impressione, fondata, che se mai analizzassimo davvero i dati, ci accorgeremmo che la coniugazione congiunta tra terrorismo e radicalizzazione islamica non c’è. E che queste ossessive discussioni sul pericolo delle radicalizzazione, non sono che azioni di radicalizzazione a tutela di una religione accreditatasi nei secoli con violenti processi di radicalizzazione. Anzi, se avessimo dati da comparare potremmo facilmente verificare che la relazione tra radicalizzazione e terrorismo è inversamente proporzionale. Spesso, piuttosto, si verifica il contrario, cioè spesso si verifica che l’atto terroristico precede l’azione di radicalizzazione.  

Allora appunto il problema, da 4000 anni ad oggi, dagli egiziani a noi, resta quello insuperabile dell'egopower, della egocentrica e autoreferenziale volontà di un potere di trasformazione della metafora culturale o religiosa in un modello di orientamento all’azione sociale o politica.

Noi dobbiamo sempre evitare che una metafora divenga modello. La radicalizzazione non si può fermare. L’unica cosa che possiamo fare, anche con attenti risultati, è evitare che una metafora culturale o religiosa divenga modello culturale di orientamento all’azione, non individuale, anche individuale, ma principalmente soggettivo, sociale o politico. In una democrazia, tanto più in una democrazia globale, se un giorno dovesse avvenire, ciascuno può esercitare, professare, cercare di estendere la propria religione. Nessuno può credere, pretendere che questa evangelizzazione culturale significhi modificare il modello di orientamento all’azione soggettiva. Nemmeno noi, che il 14 settembre 2010, in quel di Herzilya, in Israele, presso un centro di ricerca specializzato, con serietà e attenzione, con attitudine e devozione, noi, per più di 4 ore, in un workshop appositamente organizzato, noi nemmeno, pur avendo parlato approfonditamente, coscienziosamente e criticamente della radicalizzazione degli altri, senza un dato da comparare, con un modello che viceversa diventa metafora, nemmeno noi abbiamo dimostrato quanto sia efficiente ed efficace la nostra radicalizzazione. Perché infine, contro la radicalizzazione, ma anche, contro la civilizzazione, non dobbiamo organizzare una guerra culturale: dobbiamo costruire una pace politica.



[1] Assmann J. (2002), Potere e salvezza, Torino, Einaudi

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